Andrea Branzi – Rottura e ricomposizione, in un mondo fluido e caotico

ARTSCAPES # 31 – FILES – a cura di Marco Aruga

Gli effetti di movimenti artistici e di pensiero che riescono a creare uno stacco, a marcare differenze con lo status quo, e a proporre in qualche misura una nuova idea di futuro, si valutano nel tempo, nei riverberi e nelle tracce che lasciano di sé.

Dalle parti degli anni ’60, per una serie di circostanze un po’ misteriose, un po’ no, un coacervo di impulsi politico, sociali, culturali – dai più scomposti ai più organizzati – ha generato una vitale progenie di possibilità, slanci e novità.

Non sono stati estranei a tutto ciò il design e l’architettura che, come altre discipline, hanno regolato i conti con il loro passato, lanciando verso il futuro semi che hanno dimostrato di saper attecchire.

Nomi e cognomi: nati nell’alveo dello spazio sperimentale ed innovativo promosso dall’Architettura radicale hanno lanciato le loro proposte nell’humus accogliente di quegli anni Archizoom Associati, Superstudio, UFO (e poi, tempo dopo, Alchimia, Memphis, …) con Sottsass, Mendini, La Pietra, Pesce, … e – eccoci – Andrea Branzi.

In quel periodo inizia l’esperienza umana e professionale dell’architetto fiorentino, poi di stanza a Milano, che concretizza in Archizoom – insieme a Paolo Deganello, Gilberto Corretti, Massimo Morozzi e poi altri – la spinta radicale, le intuizioni e le speculazioni maturate intorno al costruire, all’architettura, al progetto tutto ed al loro processo di rifondazione, a cui si stava assistendo in quel periodo.

In Italia, come altrove, si proponevano analisi “in contrapposizione”, e concrete realizzazioni “antagoniste”, con un’ottica critica dell’establishment e del suo apparato filosofico ed espressivo. Si componevano slanci utopici, ma anche valori recuperati “in opposizione”, con una fresca attenzione ai nuovi valori emergenti ed alle nuove necessità dettate da un completo vivere nuovo, in fieri.

Archizoom aveva uno sguardo che operava in grande, sia come scala che come ambizioni, naturali per giovani rivoluzionari, che con il loro lavoro celebravano anche i più importanti movimentisti dell’epoca, in un’ottica anche politicamente radicale.

Esaltare poi le contraddizioni, per individuare nuove possibili vie, è una pratica rivoluzionaria. Come la “No Stop City” il progetto di una metropoli globale, che parte dall’abito dei suoi abitanti e giunge alla rete urbanistica, una preconizzazione dell’incipiente urbanizzazione estrema, ma anche una prefigurazione della profonda interconnessione di beni, servizi, informazioni.

Uno slancio che si è spiegato – nel tempo – ad incontrare l’estetica pop, con la sua implicita carica anticonsumistica, a flirtare con il kitsch – criticando il rigido funzionalismo – sino ad esplorare poi un neominimalismo che si ciba di rigore ed iperrazionalismo, in un completamento dell’impeto di azzeramento della tradizione, negando valore simbolico e protagonistico ai risultati del progetto – dal cucchiaio alla città – ma esaltandone il senso di tavolozza neutra, atta ad accogliere nuovo senso e nuovi valori.

Da allora l’attività di Branzi seguirà molti piani paralleli (architettura, design, urbanistica, …) ed andrà – di periodo in periodo – dalla progettazione alla riflessione critica, dal costante impegno nel dibattito culturale all’insegnamento: cosa che lo rende una figura del tutto particolare e di spessore, trovandosi significativamente dentro l’onda della creatività, quanto fuori, per leggerla criticamente, reinventando con continuità il suo ruolo ed il suo apporto.

Tra i fondatori di Domus Academy negli anni ’80, conferma anche così il suo sguardo ampio sul mondo del progetto, focalizzato sulla formazione di un homo novus progettista, piuttosto che su ortodossie presto obsolete, aperto e pronto ad imparare sulla base della sua formazione e delle sue intuizioni, un impianto ideale che, anche tramite questa scuola di design, si istituzionalizza.

Sono numerosi gli spunti, vivi ed attuali, che si possono ritrovare nell’opera di Branzi. Cogliamo riduttivamente e arbitrariamente alcuni cenni.

Come designer, una forte attenzione alla bellezza classica, e quindi agli archetipi che essa genera. Ed ancora alcune realizzazioni che puntano sull’equilibrio tra natura e artificio, facendo dialogare elementi che provengono direttamente dalla natura come materia grezza, con elementi minimalisti in giustapposizione – rigorosi o postmoderni – in un canto e controcanto tra la forza intrinseca di elementi non trattati, che richiamano il valore espressivo intrinseco della natura, come la sua forza ed il suo carattere sacro, e l’artefatto che la incontra, in un abbraccio catalogabile dal romantico al surreale, e comunque evocativo.

In architettura, l’intuizione e lo slancio liberatorio dell’”architettura leggera, in dissoluzione” (la “Città senza architettura”) che si tuffa nelle contraddizioni e nella stratificazione dei problemi delle nostre composite comunità, ma per ricomprendere le diversità, il nuovo e inedite ipotesi di riconfigurazioni sociali, umane e di habitat.

Segnali attuali, che riecheggiano in molte ricerche contemporanee.

D.: In Italia contiamo diverse esperienze di designer ed architetti che hanno lasciato il segno nel XX e XXI secolo (Archizoom – che hai contribuito a costituire -, Alchimia, Memphis, i singoli contributi di numerosi personaggi, …).
Quali sono stati – secondo la tua opinione – i contributi più solidi degli ultimi decenni, quelli che ispirano maggiormente i designer di oggi?

R.: Mi fai una domanda a cui è difficile rispondere, perché lo scenario attuale del design è enormemente frastagliato, non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
Tra l’altro, con il fenomeno della globalizzazione, quella del designer è diventata addirittura – lo dico in senso positivo – una professione di massa.
C’è un enorme quantità di creativi, presenze strategiche per il sistema industriale che deve confrontarsi con i mercati e la concorrenza mondiale ed ha bisogno di innovazione quotidiana. La domanda di creativi è cresciuta. Fa parte di quel lavoro che è chiamato postfordista, quello dell’intellettuale, del creativo, del lavorare in direzione dell’imprevisto, della novità, etc.
In questo momento c’è una fase molto caotica. Anche questo era prevedibile, e per certi versi anche auspicabile, cioè che non si stabilissero troppo dei modelli – o linguistici o culturali – troppo stabili, e che si producesse invece questo tipo di flusso, molto articolato, anarchico, imprevedibile che caratterizza il design di oggi.
Direi che questa era una delle previsioni del movimento radical degli anni ’60: che avrebbero avuto questo esito i processi di industrializzazione, che avrebbero portato a una grande complessità.
Quando noi si studiava c’era un’ipotesi “ufficiale “, quella del razionalismo, che pensava che ci sarebbe stato un futuro nell’ordine, nella normalizzazione, nella riduzione delle varianti.
Mentre i radical italiani per primi, poi un po’ in tutto il mondo, prevedevano invece l’inverso, cioè che il futuro sarebbe stato quello che poi in pratica è avvenuto.
Per alcuni ovviamente questa era specie di tragedia, per altri era invece una opzione positiva da cavalcare, una sfida importante.
L’impronta che il movimento radical – gli Archizoom che citavi in precedenza, ma un po’ tutto quel fenomeno delle avanguardie, particolarmente quelle italiane – è oggi oggetto di molti studi critici e storici, da parte anche delle grandi università americane, da Harvard a Princeton, all’Istituto Berlage in Olanda.
Rintracciano in quel movimento molti elementi che in qualche maniera hanno il presagio della futura globalizzazione, cioè di questa moltitudine creativa, ingovernabile, …
In questo senso non ci sono più riferimenti fissi.

D.: Una sorta di Big Bang espressivo che voi quasi auspicavate ed annunciavate…
Lo lego ad una carica utopica che era in molti dei movimenti artistici ed espressivi del periodo, a cui dobbiamo molto e di cui dobbiamo forse essere nostalgici.
Quel tipo di carica e di forza è stato difficile riconoscerlo altrove e successivamente…

R.: Diciamo che il termine utopico è improprio, in generale. Il movimento radical non ha proposto semplicemente un mondo migliore, ipotetico – cosa peraltro del tutto legittima –.
Una delle caratteristiche di questo movimento è stato quello di un grande realismo.
Operare per il mondo come è realmente, non solo per come dovrebbe essere.
Perché capire il mondo come è, come funziona, quali sono le potenzialità del presente, già porta più in la…
Questo è avvenuto – per esempio – a seguito del movimento Pop americano e internazionale, in quanto “forma di realismo”: constatare che esisteva un enorme territorio, un universo di linguaggi, comportamenti e messaggi che non erano né previsti, né contenuti nel calvinismo modernista, e che però – di fatto – costituivano la realtà in cui si viveva.
Noi come gruppo – in base anche agli ultimi studi storici fatti in Usa – siamo nati in parte dai circoli filosofici dell’operaismo italiano (per capirsi, prima che “diventassero il ‘68”, che ha prodotto anche molta confusione), in una fase di pensiero marxiano molto sofisticato e al tempo stesso basato su un realismo molto duro, e dall’altra sospinti dalla musica, il tessuto su cui si è costruito tutta una nuova sensibilità.
Questo è difficile da storicizzare, perché è un tipo di influenza che chiamiamo “musica”, ma in realtà è qualcosa di molto diverso, perché attraverso di essa circolavano idee, segnali, comportamenti, … una realtà complessa.
Questa influenza formativa della musica è presente nelle ultime generazioni.
Uno dei problemi pedagogici che si riscontra al Politecnico di Milano dove insegno è che arrivano ragazzi che – secondo una definizione classica – sono degli ignoranti, sotto certi aspetti.
A parte il diritto che lo studente ha di ignorare – è il suo ruolo, altrimenti non sarebbe all’Università – in realtà hanno una formazione ed una informazione musicale in gran parte molto sofisticata.
Il problema è quello di far sì che riescano a trovare una continuità tra questa sensibilità, questa conoscenza e l’universo del progetto, che usa strumenti diversi, e che però – a sua volta – deve misurarsi con la contemporaneità, con l’attualità.
Bisogna che quel patrimonio non vada disperso. Cerco di farlo quando mi capita di insegnare al primo anno, in particolare. Il primo giorno li invito a scegliersi una colonna sonora che, secondo loro, è quella che meglio li rappresenta, e rappresenta la contemporaneità.
Debbo dire che lo capiscono molto bene e non se lo fanno spiegare due volte: dimostrano di interpretare la musica non solo in senso musicale, ma con un significato epocale molto più profondo.
Questo è un tipo di passaggio che bisogna valorizzare, non semplicemente “farli sbattere” contro un gradino di nozioni, su cui loro non possono essere a loro agio.
Mi ricordo che intorno al 2008/2009 si fece un laboratorio sulla musica contemporanea (non rock o pop, ma autori come Ligeti, Schoenberg, etc.) e la progettazione di nuove forme di auditorium, con i criteri dell’ascolto attivo… Il primo giorno, per spiegare cosa si intendeva per musica contemporanea, si fece sentire dei piccoli frammenti, metti di Sylvano Bussotti. Non l’avevano mai sentito in vita loro, ci furono delle risate… perché questa idea della musica che era stridore, rumore… era “inascoltabile”.
Però, dopo un mese, si è dato a ciascuno di loro un’esercitazione, con un pezzetto di queste musiche, perché se ne desse un’interpretazione visiva, narrativa – quindi si entrasse nei linguaggi “retinici” … -, e loro hanno dimostrato una strabiliante capacità di interpretare il suono, senza conoscere tutte le vicende, anche contraddittorie, della musica contemporanea. Come si sa, è sì sperimentale e coraggiosa, ma anche volutamente ostica e produttrice di una nuova accademia … in fondo alla fine quello che volevano alcuni di loro era fare un concerto alla Scala…

D.: Hai mai pensato a qualcuno dei tuoi progetti come una partitura musicale, con riferimento al linguaggio, alla forma con cui la musica spiega e racconta sé stessa?
L’hai mai avvicinata un tuo possibile progetto?

R.: Negli ultimi anni ho stabilito molti rapporti tra l’universo del progetto e la musica, sia quella contemporanea, degli anni ’60 e ’70, che conosco meglio, che quella più sperimentale, tipo John Cage.
Il design e la cultura del progetto non prevedono in generale una colonna sonora. É silente: è un difetto, ed è il risultato di un isolamento. Ho cercato di creare un’atmosfera drammaturgica più forte nel design, lavorando con il contributo della musica contemporanea – di Shostakovich o Jimi Hendrix, … -.
Se si guarda la storia dell’architettura, nell’ultimo secolo, si vede che è passata attraverso due guerre mondiali, la bomba atomica, la Shoah… Ne sono successe di cotte e di crude, ma nel mondo del progetto non se ne vede traccia.
É tutto autoreferenziale, sembra sempre garantire un “lieto fine”.
Siccome io invece comincio a credere che il lieto fine non è più garantito, e che i tempi stanno cambiando molto rapidamente, bisognerebbe che l’attività di progetto cessasse di essere soltanto pratica professionale per diventare cultura, cioè si occupi dei temi non strettamente inerenti la produzione di serie, ma dei grandi problemi dell’uomo, che sono – per esempio – il confronto con il mistero, con la morte, con la storia… cioè tutto quello che si chiama cultura.
In questo la musica – anche i Sex Pistols o Lou Reed, per esempio – queste mutazioni profonde, queste sensibilità rispetto agli eventi storici le hanno dimostrate, come la letteratura, in pittura, nell’arte, persino nella moda – c’è stato il punk, il dark, … -.
Il design lo vorrei molto più calato nel reale, più ruvido, teso a trovare una nuova grammatica, una nuova drammaturgia, anche attraverso i rapporti con la letteratura, la musica, tutto ciò che è contemporaneo. Uscire da quest’isolamento, in questo la musica aiuta molto.

D.: Essendo tra i fondatori di Domus Academy agli inizi degli anni ’80, ti chiedo quali dei moventi originali che hanno condotto alla sua costituzione sono particolarmente validi oggi (la speciale attenzione dedicata al progettista, alla sua valorizzazione personale, alla forma delle relazioni tra industria e designer …)?

R.: Domus Academy è nata con una mission molto precisa, che era quella di indagare ed affrontare tutte quelle problematiche che poi hanno preso nome di “postindustriali”, e i cambiamenti sociali, ecologici, ma anche filosofici, che sono intercorsi.
Questa piccola scuola è anche il risultato di una storia precedente.
I “radicali”, il nuovo design italiano, Alchimia, Memphis, non è che si sono improvvisati. Del resto, l’improvvisazione è l’unica cosa che non si può improvvisare: bisogna cioè avere dietro le spalle una storia, cosa che noi avevamo.
La novità didattica che Domus Academy ha proposto è stata quella di spostare il problema dall’apprendimento del progetto alla formazione del progettista, che sono due cose completamente diverse.
Questa prospettiva è stata poi nel tempo condivisa; allora era ancora presente la tradizione, con le metodologie di progetto, un apparato anche di stupidaggini che non si sapeva neanche che cosa volevano dire.
Oggi si sa che in un contesto di domanda di innovazione, di problematiche e di cambiamenti in una società “autoriformista”, insomma quello che è il quadro attuale, la scuola deve formare degli autodidatti. Può sembrare un paradosso, ma è così. Persone, cioè, che nell’esperienza didattica apprendono ad imparare da soli.
Questo è stato molto importante nel successo di Domus Academy, perché l’attenzione si è spostata dal progetto alla questione del progettista. Sono novità che sono state sicuramente riconosciute e condivise nel tempo, anche perché corrispondevano alla realtà che si stava vivendo, non erano utopie.
Devo dire che personalmente non ho mai capito bene in che cosa consista il futuro. Il presente mi interessa molto, il futuro mi interessa come categoria creativa, perché diviene gratuito, non fa parte dei repertori di mio interesse…
Domus Academy esiste ancora, è stata comprata dagli americani. Inizialmente avevo immaginato che sarebbe durata 10 anni, l’avevo anche dichiarato. Dopo 10 anni sarebbe stata chiusa, perché i tempi – nel frattempo – sarebbero sicuramente cambiati. Dopo 10 anni, siccome i tempi erano cambiati, ecco che si è detto: “beh, allora andiamo avanti!”. Io poi sono andato al Politecnico…
Oggi la difficoltà delle scuole, in particolare di quelle piccole, è avere una mission chiara; oppure fanno un po’ di tutto, e lo fanno male.
Il Politecnico è una scuola dai “grandi numeri”, con uno scenario formativo diverso…
Oggi ci sarebbe forse l’urgenza di affrontare il design nell’epoca della globalizzazione, che è del tutto diverso da quello “eurocentrico”.
Nell’epoca della società “autoriformiste”, nell’epoca del lavoro postfordista, ci sono dei temi molto importanti da affrontare.

D.: Una delle questioni chiave del mondo contemporaneo è la questione ambientale. Come ti sembra che venga presa in considerazione nel mondo del disegno industriale in particolare e della progettazione in generale? Quale importanza le viene attribuita?

R.: Io sono critico nei confronti della posizione dell’ambientalismo, in generale.
Ho sempre dichiarato che esiste il problema ambientale, ma esiste soprattutto il problema degli ambientalisti … che è cosa diversa, perché stanno prendendo una strada che è quella della prudente conservazione dell’esistente, mentre una posizione “postambientalista” – a cui guardo con favore – sarebbe quella di ricollegare l’ambientalismo con le avanguardie creative, in cui non si ritiene che la felicità si raggiunge in rapporto ai metri quadrati di prato a disposizione…
Queste sono affermazioni anche pericolose, l’habitat umano è una realtà molto complessa, ricca di elementi sconosciuti, non si può semplificare.
C’è anche il rischio di prefigurare un “governo dei tecnici”, il dibattito è aperto.
L’ambientalismo è nato dalle avanguardie, però ora è diventato nemico delle avanguardie.
Non sono d’accordo, e devo dire che il disagio che io manifesto, comincia a diffondersi nell’ambiente degli ambientalisti. Avvertono che il “caso per caso” conta, il “mondo in trasformazione” anche quello conta.
Circa i materiali ecosostenibili per esempio, un argomento molto interessante: lo si sta usando semplicemente per sostituire i materiali tradizionali con quelli di nuova generazione, rifacendo le stesse cose magari più brutte di quelle precedenti.
In generale gli ambientalisti evitano il problema estetico, lo considerano un elemento diversivo. Questa è una posizione politicamente molto pericolosa perché, come ha dichiarato Iosif Brodskij, il crollo dei paesi socialisti è derivato da una sorta di collasso estetico.
Il socialismo reale aveva costruito un mondo talmente sgradevole, anche sul piano formale, che poi ha prodotto un rifiuto politico. Dice che, come persino per i bambini, la questione estetica è strettamente legata alla questione etica. Un bambino quando vede una cosa brutta dice che è anche cattiva.
Questa analisi è molto calzante, ritengo. Potrebbe anche essere che anche i paesi del capitalismo facciano una fine analoga, non per inquinamento, magari, ma per un rifiuto estetico.

D.: Il caso italiano del design industriale, nel corso degli ultimi decenni, è stato tra quelli più indagati.
Distretti industriali, la tradizione artigiana, la dimensione di alcune attività industriali, imprenditori illuminati, grandi designer e grandi scuole.
Quali sono le caratteristiche attuali del sistema nella sua interezza, secondo la sua opinione, e quali sono gli aspetti più promettenti?

R.: Secondo una frase consolidata “il design italiano è in crisi”. Io però, da quando mi occupo di design, che sono diversi decenni, ho sempre sentito dire che era in crisi.
Quindi è forse anche un segno positivo… non so. Certamente il modello italiano si è diffuso: quest’idea della piccola serie… ora avviene anche in Cina, come in Sudamerica.
Il design non è più solo grande serie, ma è un sistema molto più complesso di produzione, e il design italiano è ora considerabile in minor misura un’eccezione rispetto al contesto.
Le ultime generazioni italiane (che vengono generalmente bastonate, sgridate …) le ho sempre difese.
Qualche anno fa si fece una bella mostra alla Triennale, sui nuovi designer italiani.
Rispetto a un tempo in cui i designer erano a Milano – gli studi di design erano 10, e le imprese che le occupavano erano 20, anche meno – prima sorpresa – lo scoprimmo in quella occasione – non erano solo qui. Si candidarono a partecipare migliaia di persone, da ogni parte di Italia.
È un’attività ormai diffusa, ed è anche il risultato di una nuova forma di critica politica. C’è una generazione che vede un mondo che non funziona, da tanti punti di vista, compreso anche quello estetico, formale, oltre che ambientale e sociale, e allora pensa di riformarlo a partire da piccole cose.
Questa è una novità politica del 21º secolo, molto interessante: l’idea che si possono ottenere le grandi trasformazioni attraverso i microsistemi. Questa è un po’ la logica di Muhammad Yunus, dei micro crediti. É l’entrata in una dimensione che il 20º secolo aveva anche giudicato negativamente.
Questa generazione intanto non si preoccupa minimamente dei problemi stilistici, di linguaggio, né di tecnologie avanzate. Molto di quello che fanno è “self brand” o autoproduzioni, andando ad occuparsi non di arredamento, ma di tutto un universo domestico apparentemente secondario. Progetti di fermaporte, mollette per i panni, portapenne… fatti con grazia e con attenzione.
Visti nel loro insieme hanno scelto istintivamente di incominciare ad entrare negli interstizi della realtà, nell’ambiente abitato. Non le macrostrutture, non arredamento, ma piccole cose. Questo può sembrare una decisione che non porta risultati, invece va guardata con attenzione, perché bisogna essere molto prudenti nel giudicare che cosa è utile e che cosa non lo è.
Se si guarda alla storia di tutte le grandi civiltà, nel tempo si sono sviluppate investendo grandi energie sulle cose apparentemente inutili: la musica, la poesia, la pittura, la letteratura. Le cose per le quali sembra non esserci mercato: la poesia non si vende, nessuno la chiede. Però quando alla fine si tirano le somme … Se oggi dici 20º secolo non vedi grandi dittatori, ma ti appaiono piuttosto le immagini dei pittori dell’arte moderna. Questo è il 20º secolo, il resto è cenere.
Mi ha fatto impressione un episodio a Parigi al cimitero di Montparnasse, che ho visitato recentemente. Un tipico cimitero francese molto istituzionale, con ministri, governanti, banchieri: tutte tombe deserte. Poi c’era una tomba piena di piccoli doni, un pacchetto di sigarette, una fotografia, un bigliettino, una bambolina … era la tomba di Baudelaire. Allora uno si dice: vuoi vedere che quello che tiene botta alla storia sono queste realtà infinitesimali, semiclandestine, mentre il resto se ne va in cenere?
Non sono mai stato dell’idea che i grandi architetti debbano necessariamente fare le “cose grosse”, i grandi progettisti possono fare anche microsistemi, sottoprogetti, che però sono quelli che poi cambiano la qualità delle cose, dell’ambiente abitato.

D.: Qual è la funzione del design (consolatoria, creativa e positiva, critica e di rottura, …) e qual è il suo futuro?

R.: Io non ho mai capito bene a cosa serve il design, e credo che questo sia un fatto condiviso da molti che fanno design. Perché è quello che tu dici, tutto insieme, ed anche altro.
Sai, all’origine di tutto c’è una questione non risolta, ed è il rapporto tra l’uomo ed il suo habitat domestico, che è fatto di logiche, di affetti simbolici, presenze scaramantiche, sciamaniche (gli oggetti portano sfiga, quegli altri invece portano fortuna, …).
Il rapporto tra l’uomo e gli oggetti è un rapporto che non è mai è stato ben chiarito, probabilmente non è nemmeno auspicabile venga chiarito, perché cambia, caso per caso.
Il design che affronta questa interfaccia deve tenere insieme molte cose: avere la capacità di creare un servizio, ma anche un’emozione, un dono, qualche cosa di inatteso, anche un presagio.
Nella storia gli oggetti, per esempio nella classicità, avevano un’anima, ed interloquivano con il proprio utente; c’era un atteggiamento animista. Tanto che in un’antologia latina che raccoglie poesie erotiche in greco, ci sono moltissime poesie con colloqui tra gli amanti e – per esempio – le lanterne, che vengono chiamate a testimonianza dei giuramenti e dei tradimenti, così come i letti, o le porte.
Ho sempre pensato che il design italiano, a differenza del design in altri paesi, ha conservato molto di questo animismo, dell’idea che l’oggetto ha una vita autonoma, non si esaurisce nell’uso, non ha una funzione monologica. Ha invece una presenza molto sfuggente, cangiante, complessa, ed è una grande ricchezza. Ci sono degli enigmi alle origini del progetto degli oggetti, che vanno valorizzati.
Il fallimento del razionalismo – alla fine – è nella realtà. Non è solo questione di “produrre in serie” (si producono tante di quelle stronzate da riempire il mondo …). Vedeva il problema in termini talmente semplificati, che poi alla fine, i cambiamenti del mondo hanno fatto giustizia da soli.
Nel tempo andremo alla scoperta di tutti i significati che tutta questa realtà antropologica ha.
Gli antropologi riescono a spiegare bene i rapporti tra le culture primitive e l’universo degli oggetti. Quando si tratta invece delle società urbane attuali, la faccenda diventa più difficile.
Ci sono poi polemiche contro il consumismo, contro gli abusi, … ma questa diventa un’altra storia.

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Il sito di Andrea Branzi

Home Andrea Branzi

Intervista per “Lezioni di Design” su RAI Educational

http://www.educational.rai.it/lezionididesign/designers/BRANZIA.htm

Il design e la cultura del progetto

L’architettura secondo me – http://wisesociety.it/?id=yt

Intervista ad Andrea Branzi – XfafX – Festival to Design Today – Alessandro Deserti

Andrea Branzi – Milano Arch Week 2019

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