ARTSCAPES ha incontrato l’architetto Daniel Libeskind

Per ARTSCAPES#60 – FILES – a cura di Marco Aruga, Daniel Libeskind “Architettura e comunicazione”

La sua firma potrebbe essere la linea trasversale, atta a sovvertire i riferimenti consueti dell’occhio, abituato a simmetrie e al rispetto – implicito – della forza di gravità e delle paradigmatiche regole costruttive.

Le forze che si mettono in gioco, in un progetto che la preveda, insieme a soluzioni edificative inedite, sono costantemente una sfida.

Dove ci sono queste ricercate “tensioni”, ed in generale dove si v07uole piegare al concreto uno slancio “ideale”, ci si trova di fronte a problematiche sempre nuove, e a sfide ingegneristiche che spostano i limiti del “già scritto” in architettura.

Sono però intanto un forte richiamo generale a buttare il cuore al di là dell’ostacolo, a cercare di volta in volta di creare nuovi scenari e nuove visioni, popolando ed abitando il futuro, nel frattempo rinnovandolo di giorno in giorno.

In questo quadro ideale troviamo l’opera di Daniel Libeskind, architetto cittadino del mondo, ma con solide radici nella sua storia personale, i cui contorni hanno avuto modo di manifestarsi con forza nella sua opera.

A partire dallo Judisches Museum – l’iconico edificio e il coinvolgente ed intenso percorso del Museo Ebraico di Berlino -, opera del figlio di due genitori polacchi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, per giungere alla Freedom Tower e al Master Plan di “Ground Zero”, per contribuire a rimarginare la storica ferita di quella che sin dagli anni 60 costituisce la sua nuova “patria”, New York.

Alcuni suoi progetti, tra i più significativi, come la ristrutturazione del Museo di Storia militare di Dresda, il progetto dell’ampliamento del Victoria ed Albert Museum di Londra, sembrano concrezioni naturali che libere crescono sui teoremi classici dell’architettura, ma in realtà – come per la natura – ferree regole presidiano queste nuove strutture, che obbediscono a geometrie nuove ed avanzate, oltre che ad una loro musica “interiore” (disciplina a cui Libeskind è sempre stato vicino).

Ma il panorama delle sue opere è molto ampio: una cifra linguistica “espressionista” – anche se può sembrare improprio – pervade molti dei suoi lavori. La necessaria “oggettività” del costruire si contamina con il “gesto”, con il segno forte, con la rottura – fisica, reale e di schemi mentali – che poi si ricongiunge nei tratti di un’opera conchiusa, coerente e forte.

L’occhio interiore genera una visione, un’idea che si concretizza nel progetto e informa di sè la realtà, cambiandola “drammaticamente” e non sottraendosi ad un’esigenza forte di comunicazione: se in prima istanza è in evidenza il segno individuale, la chiave “persistente” si risolve in una vera testimonianza, in una “narrazione”.

Daniel Libeskind si impone con personalità unica e distinta nel panorama dell’architettura contemporanea e ne rinnova il suo linguaggio.

D.: La matita è più vicina al cuore di altri strumenti di lavoro?

R.: Nessuno strumento è speciale, tutti sono uguali per me. Quando uso una penna per computer, o quando uso un altro strumento, non fa differenza.  

In architettura poi, come scelte progettuali, uso anche mezzi molto tradizionali, come il cemento e il vetro, ma portano un messaggio, che va al di là del loro aspetto estetico. Trasmettono in realtà il significato culturale di un edificio, sia esso situato in Varsavia, o Berlino, o a New York nel “Ground Zero”. Ogni edificio, anche una singola casa, possiede questa peculiarità.

Ogni progetto si risolve nell’unione della sua espressione grafica, del suo disegno e del suo senso, in consonanza di una idea “culturale” di architettura.

D.: C’è un confine tra arte e architettura? Se c’è, quanto è forte?

R.: Non penso che ci sia un confine di questo tipo. Marcel Duchamp disse che ogni scultura era un pezzo di architettura, e che quindi l’architettura è come “una scultura con le tubazioni”. Penso che sia un pensiero meraviglioso; in questo modo Duchamp ha dissolto il confine tra arte ed architettura. 

Possiamo dire che non esiste questo limite, poiché l’architettura si può definire un’arte “civica”: è legata a un contesto pubblico, non può essere fatta solo per se stessi. 

Il senso del pubblico e della partecipazione civica contribuisce a creare quello che è architettura.

D.: Alcuni dei tuoi più famosi progetti sono legati a passaggi molto importanti della storia mondiale.

Cito due grandi esempi: Ground Zero a New York e lo Judisches Museum a Berlino.

Affrontando questi grandi progetti, alle consuete difficoltà e limiti si sono aggiunte nuove responsabilità, e sensibilità di cui tenere conto. Sembra molto complesso…

R.: Ritengo che – per operare al meglio in questi contesti – sia necessario essere coinvolti direttamente. Non è solo questione di andare in biblioteca e studiarli, devono essere veramente parte della tua propria vita.  

Il fattore chiave per comprendere come operare è l’elemento umano.

Lo spirito umano attraversa molte difficoltà e tragedie, da cui è necessario trarre elementi di insegnamento, positivi, giusti e di speranza. L’umanità ha molto a che fare con questi elementi, piuttosto che con il male e la violenza.

Il senso dell’architettura è questo: come spesso si ha occasione di dire, non si può essere pessimisti per fare l’architetto, cosa che può accadere in altre discipline, come la poesia, la musica o l’economia.  

Perché l’architettura crea fondamenta, sulla base delle quali le persone vivono: deve costruire e deve andare avanti.

D.: A parte i limiti “naturali” dovuti ai contesti politici, economici, ecologici e funzionali, qual è lo spazio reale per una “libertà di espressione” nell’architettura contemporanea?

R.: Se guardiamo alla grande architettura, si è sempre misurata con grandi temi politici, economici e sociali. È un fatto centrale in questa disciplina.

Si deve tener conto degli investitori e delle risorse impiegate, della cittadinanza, delle questioni amministrative.

Non credo che i migliori edifici nascano su una tabula rasa, con il denaro di un ricchissimo monarca. I migliori progetti nascono dalla lotta con mille limitazioni, che normalmente si trovano in una grande città.

D.: Il tuo lavoro è spesso parte di progetti molto grandi ed impegnativi. Quando sei coinvolto su progetti su scala minore, come li approcci?

R.: Quando disegnai la mia prima casa, non avevo mai progettato una casa prima. Si tratta di un piccolo edificio, per una coppia, in Connecticut.

Ho veramente amato lavorarci, perché i miei clienti, collezionisti d’arte, mi dissero che non avevano realmente bisogno dell’arte per quella casa, ma cercavano un’abitazione che li ispirasse, ogni mattina.

È stato bellissimo avere un rapporto diretto, solamente con loro: un piccolo progetto, con una camera da letto ed una cucina, curando le loro esigenze primarie, come cucinare, o vedere il paesaggio.

Alla fine l’architettura tratta dell’essere umano. Anche quando si costruiscono degli edifici ad alta densità abitativa, coinvolgendo migliaia di persone, quello di cui devi tener conto – alla fine – è il singolo individuo.

D.: Molte innovazioni tecnologiche ci stanno donando nuove forme, e di conseguenza nuove emozioni nel “vivere l’architettura”.

Cosa possiamo immaginare delle nuove possibilità date dalle tecnologie contemporanee?

R.: Non potrei costruire nessuno dei miei nuovi edifici, senza l’attuale tecnologia. Puoi disegnarli su carta, ma senza l’ausilio di nuove tecnologie non sarebbe possibile progettare e costruire in tempo, e secondo budget.

È una cosa fantastica: il nostro tempo ci dota degli strumenti per raggiungere risultati che non avremmo potuto neppure sognare prima.

Il XXI secolo è aperto per un enorme e nuovo spettro di creatività.

D.: L’architettura, tra le altre cose, protegge e custodisce le altre arti (Musei, Auditorium, …) ed è in dialogo con esse.

Che tipo di relazione c’è tra questi differenti linguaggi?

R.: L’architettura è dialogo. È anche l’arte di fare domande. Siamo abituati al fatto che normalmente le domande del pubblico dibattito siano sollevate dalla scienza, dall’arte, dalla poesia, dalla musica, ma posso dire che anche l’architettura è ora in grado di sollevare questioni dirimenti per la nostra vita, per esempio temi come: come viviamo oggi, come potremmo vivere, come potremmo costruire un migliore orizzonte di fronte a noi, avere “più luce”.

L’architettura non è solo arte dell’intelletto, è arte poetica.

D.: “La musica è architettura congelata”, diceva Goethe. Tu hai avuto occasione di dire che “l’architettura è un arte che combina il disegno e la musica”.

Qual è la musica che armonicamente ed “architettonicamente” è più stimolante per te?

R.: Come nella musica, anche nell’architettura è racchiuso un segreto. La vera architettura non è ovvia, ma è qualcosa che entra in relazione con la memoria, sul come la memoria può essere guidata attraverso una rete complessa di parametri, che sono all’interno del progetto.

Ritengo che la musica e l’architettura siano in fin dei conti simili, perchè anche la musica è molto misteriosa.

La bellezza sta nel fatto che sia la musica che l’architettura hanno a che vedere con dati accurati e complessi: può essere una singola linea discordante (in una architettura, come in un concerto di violino) a togliere equilibrio all’intera struttura.

Tutta la struttura ed il paraphernalia tecnico – per entrambi – sono costruiti in modo da parlare direttamente al cuore.

Un impatto emozionale che non ha nulla a che vedere con la complessità della struttura retrostante, bensì con l’emozione grezza che sta alla base della psiche, dell’anima.

LINK

Studio Daniel Libeskind

http://daniel-libeskind.com/

Daniel Libeskind: il futuro è una fiamma che brucia nel passato – RAI Cultura – 2019

https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Daniel-Libeskind-il-futuro-e-una-fiamma-che-brucia-nel-passato-f3dc968c-d64f-49dd-8452-0530bbae0d08.html

Interview with Daniel Libeskind – Clara Visentin – 2013

https://www.youtube.com/watch?v=UWbIhtuDFSU

Daniel Libeskind: l’ispirazione architettonica in 17 parole – TED 2009

https://www.ted.com/talks/daniel_libeskind_17_words_of_architectural_inspiration?language=it

 

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