ARTSCAPES – FILES – a cura di Marco Aruga “Roberto Masotti, Silvia Lelli “Immagini che risuonano, emozioni visibili”.
Roberto Masotti ci ha accompagnato sulla “soglia dell’illuminazione”, del momento della creazione, con la curiosità, l’energia e la felicità che ha condiviso con i suoi artisti, per addentrarvisi con spirito appassionato.
In occasione della sua scomparsa – avvenuta il 25 aprile – vi riproponiamo l’intervista che Marco Aruga aveva realizzato per ARTSCAPES, di cui Roberto era stato ospite con la moglie Silvia Lelli.
“More than meets the eye” è un’espressione inglese che invita ad andare al di là delle apparenze. Con il nascere stesso della fotografia, con la possibilità quindi di rappresentare “così come appare” quanto ci circonda, ci si è posti in realtà molte domande su cosa sia questo mondo da “catturare”, e su come documentarlo.
Ed è stato subito un fiorire caleidoscopico di mille altre nuove realtà, di mille nuove prospettive del vissuto.
Come le molte varietà della verità, che nascono anche semplicemente dal punto di vista dell’osservatore, o del narratore, ecco che grande importanza assumono – in quest’ottica – i sentimenti e le passioni del fotografo.
Silvia Lelli e Roberto Masotti univano vita e passioni, e queste ultime erano anche il loro lavoro. Ma quello era solo il punto di partenza di un percorso professionale che doveva nutrirsi di estrema perizia, partecipazione personale, empatia, sapienza per giungere ai risultati che hanno potuto raggiungere.
Per lunghi anni creatori del patrimonio iconografico di una delle istituzioni teatrali e musicali più importanti al mondo, il Teatro alla Scala di Milano, ne sono stati quindi custodi e testimoni, scrivendone una parte di storia. Ma lo spirito felicemente interdisciplinare del complesso del loro lavoro – che trova ispirazione anche nella natura – la tensione vitale, lo slancio progressista che hanno documentato (frequentando la scena della musica creativa, e legandosi ad esperienze musicali ed artistiche quali la Cramps di Gianni Sassi o la ECM di Manfred Eicher) e poi le esperienze ove la loro arte collide felicemente – in installazioni e performance – con musica e video, sono sempre debitrici di un intenzione propulsiva e libertaria, dell’idea di essere “li, dove nasce qualcosa” e del contribuire a farlo nascere.
L’oggetto più conosciuto del loro lavoro è l’elemento più manifesto e al tempo stesso più inafferrabile che esista: quello della creazione artistica, spesso nel suo momento più etereo e volatile, quello legato al medium musicale. La ricerca è focalizzata sull’attore del gesto musicale, ma anche sui suoi strumenti, e sui suoi ambienti – mediatori di emozioni -.
Se altrove si reclama una distanza dall’oggetto rappresentato, in funzione di una prospettiva documentaristica, qui sembra più opportuno richiamare in gioco anche elementi diversi, più utili a scoprire segreti e pulsioni di un mondo in fermento vitale ed intellettuale.
Ci si avvicina ai musicisti, ai danzatori, ai direttori d’orchestra con spirito di partecipazione, in un campo conosciuto ma accidentato, a caccia del momento: obiettivo è fissare in una fotografia il racconto di giorni, ma anche anni, di tensioni, di prove e riprove, di gioie e di difficoltà, tutte legate alla scintilla del percorso creativo.
La preparazione ad un così difficile compito avviene condividendo: momenti di vita, il lavoro quotidiano, se si è fortunati anche ideali, ed epifanie, se non utopie, che ci si sforza di rendere visibili. E se la societas diviene anche umana, come nel caso di Lelli e Masotti, è facile immaginare uno scambio di idee proficuo e costante, a supporto dell’attività professionale.
A quel punto, penso ci si possa abbandonare, ma con la rilassata compostezza e consapevolezza del maestro con l’arco, pronti a scoccare la freccia, forti della propria tecnica, dell’esperienza, della conoscenza, ma con l’opportunità in più data dal fatto di conoscere il vento (diremmo: lo spirito, il senso della storia che si vuole raccontare) e sapere come anticiparlo, per essere pronti. Si può parlare di istinto, di intuito, ma si tratta di sensi disciplinati e coltivati.
“Vedere come ascoltare”, come recitava il sottotitolo di una mostra loro dedicata nel 2012 (“Musike”) dall’Istituto italiano di cultura di Madrid. Vedere, ascoltare: entrambe un’arte, in questo caso al servizio dell’arte.
Questo è il resoconto del nostro incontro con Roberto Masotti e Silvia Lelli di qualche anno fa.
D.: Anche se la vostra esperienza è legata alle arti performative in generale, avevo piacere di iniziare il nostro incontro parlando di musica in particolare. La fotografia e la musica: sono l’arte che incontra l’arte. L’instaurazione di un dialogo: di che cosa si discorre, in questo incontro?
R. [Masotti]: Forse non si discorre, è un incontro di immagini diverse, che vengono riconosciute, emesse, catturate. In fondo esiste anche un’immagine del suono, che è parte integrante della musica. Si può costruire un ambito comune, per questo dialogo tra fotografia e musica. Da un altro punto di vista, apparentemente è un ossimoro “raffigurare” la musica. Questa operazione, in parte vietata dal buon senso, si concretizza cercando di assistere alla musica non solo con le orecchie, ma contemporaneamente facendo “lavorare” la propria visione nel modo più analitico possibile, in modo che lo sguardo possa soffermarsi su certi aspetti che possono essere sintomatici, e quindi restituire quanto noi notiamo o quanto ci cattura.
R. [Lelli]: Infatti io dico sempre che il nostro è un lavoro quasi impossibile. Quello che vediamo (ora un file, prima su una carta bidimensionale) è cosa muta, mentre dobbiamo rendere visibile il suono. Ci penso spesso, specialmente adesso dopo tanto lavoro con la musica: tutto per noi è avvenuto sempre naturalmente, e credo che dietro questo – alla fine – ci sia sempre il desiderio di ascoltare. È tutto un ascolto: è quasi una scusa fare i fotografi. Ci ha permesso di essere là, in certi momenti, in certi luoghi e con certi artisti, veramente eccezionali, e – dal nostro angolino – ascoltare. È solo ascoltando che tu maturi quel qualcosa che restituisci in un’immagine. E confidi che essa conservi dentro il suono, lo evochi osservandola.
D.: Nella vostra relazione con la musica avete avuto occasione di poter documentare ogni aspetto della creazione artistica musicale. Ci sono dei momenti che potete considerare privilegiati? Ce ne sono alcuni che voi prediligete?
R. [Masotti]: Non tanto per fare gli originali sempre e comunque, ma ormai è consolidato il fatto che, per sfuggire alla routine del rapporto di causa ed effetto tra concerto e fotografie, si cerca di andare all’antefatto: all’incontro e al fotografare il musicista mentre sta provando, non solo sul palcoscenico, anche nell’attività che precede la preparazione di un concerto, un’opera, un atto performativo. Il fatto chiave è rincorrere l’intimità con una serie di gesti che l’artista produce, e che cerchiamo di documentare.
R. [Lelli]: Noi parliamo di esperienze che viviamo quasi giornalmente, e quindi diamo forse per scontato qualcosa. Per andare nel concreto, ritengo un privilegio enorme – per esempio – aver potuto ascoltare le prove di un direttore quando incontra l’orchestra la prima volta, quella che in teatro si dice la “lettura d’orchestra”. È il momento in cui il direttore spiega e parla con i professori, correggendo le proprietà del pezzo e sottolineandone i passaggi, fornendo la propria interpretazione di quell’opera in particolare o dell’intero concerto.
Ed è un momento meraviglioso: ascolti l’esecuzione, poi il direttore parla, chiede qualcosa, magari con esempi semplicissimi, in cui però fa capire che vuole quel tipo di suono, più leggero o più pesante. Così si chiarisce il tipo di interpretazione, anche attraverso le “correzioni”. Io vado a quelle prove e non fotografo, ascolto solamente: ma aver potuto assistervi mi ha permesso di interiorizzarle, per poter indirizzare il mio apporto quando fotografo l’opera o il concerto.
R. [Masotti]: Momenti che poi si ritrovano anche in altri ambiti, in prove con altre musiche, e non c’è differenza: jazz, rock, …
R. [Lelli]: … anche con la danza contemporanea, per esempio: con la coreografa che crea, imposta con i danzatori, dice e mostra le sue idee.
In questi momenti di creazione difficilmente scatti, ma il fotografo getta le basi per il suo lavoro. Sono momenti unici, eccezionali.
R. [Masotti]: Un altro momento impareggiabile è quello in sala di registrazione. Li c’è qualcosa di cruciale, tutto avviene a fior di pelle, sui nervi. C’è una tensione indescrivibile e l’atto creativo (se non è “solamente” interpretativo, come nel caso di una registrazione di Jazz, dove l’improvvisazione gioca un grandissimo ruolo, e non sei distante, come accade nella sala da concerto) è proprio accanto a te, di fronte a te. Senza il filtro del pubblico.
E’ molto bello ripensare ad alcuni momenti in cui, sia io che Silvia, siamo stati presenti e testimoni, per fotografare in modo ancora più “pericoloso”, direi, e con questa prossimità. Se poi dopo questa registrazione entra a far parte della storia della musica, allora puoi alzare timidamente la bandierina e dire con piacere: “io c’ero”. Difficilmente dimenticherai certi passaggi ripetuti. Determinante è la tensione d’ascolto, la capacità che noi abbiamo acquisito di ascoltare e fotografare nello stesso momento. Come se avessimo imparato la “respirazione continua”, che consente a un musicista, un fiatista, di andare avanti incessantemente, di fare due cose contemporaneamente.
D.: Circa lo scambio che avviene con i musicisti: ritengo che il tipo di rapporto che si instaura possa essere il più vario, considerate le varie personalità che incontrate. Sembra di scorgere che possono però anche nascere delle relazioni intense. C’è questo scambio? Anche in funzione del medium che avete scelto?
R. [Lelli]: Si, c’è uno scambio. La cosa più strana – almeno vista dall’esterno – è che questo scambio non avviene con le parole, è incredibile! Succede particolarmente con i direttori d’orchestra che ti conoscono da tempo, i quali privilegiano il tuo lavoro rispetto a quello di altri. Ti cercano apposta per un servizio fotografico. Può accadere che non si sia mai parlato di fotografia, di “come mi devi fotografare” o “cosa voglio”. C’è invece questo capirsi al volo, con gli sguardi. Tu conosci quella persona, lui sa che può fidarsi di te, e che tu interverrai solo nei momenti opportuni. Sa anche che sai capire il momento opportuno per una foto, e senti questa responsabilità e più di una volta ti accorgi di rinunciare allo scatto. Mi capita frequentemente, sono grandi rinunce per un fotografo. Ma vieni ripagato, ne nasce un rapporto di comprensione reciproca: l’artista ha capito di essere stato capito, si crea un rapporto di fiducia che permette – magari con tempi più lunghi – di realizzare dell’ottimo materiale. È un’intesa non di parole, del sentirsi, dell’annusarsi, piuttosto.
Aver ottenuto una foto bellissima in un istante sbagliato, in un momento musicale difficile della prova, avrebbe rotto un equilibrio difficile da ricostruire.
R. [Masotti]: Vanno evitati contrasti, gli incidenti, ma nello stesso tempo bisogna anche avere l’impulso di non perdere l’occasione, e fare due passi avanti per inquadrare meglio quella foto da non lasciarsi scappare… ma solo se, come diceva giustamente Silvia, ci sono le condizioni. Il fotografo di spettacolo dice anche “io devo essere tappezzeria”, ma è una tappezzeria che può anche staccarsi dal muro e muoversi, quando è giusto.
R. [Lelli]: Però questo te lo conquisti. Se hai ottenuto fiducia, e ti accorgi del momento giusto, puoi veramente ingranare la marcia, andare e fare. Magari eccedi, però ti è perdonato.
R. [Masotti]: Come direbbe Keith Jarrett “ti ho concesso di essere presente”, quindi tu devi approfittarne. “Io so che tu sei qui, mi sta bene” e quindi agisci. Il personaggio ama che ci sia una certa naturalezza, che non ci siano salamelecchi, ruffianerie, sorrisi di troppo che tentano di ammaliare. Con naturalezza le cose accadono. Spesso, più grandi sono i personaggi, meno problemi ci sono.
R. [Lelli]: Assolutamente, questo lo sottoscrivo. Rispettano il tuo lavoro.
R. [Masotti]: Sono dei professionisti. Sia che ti conoscano, oppure no, hanno un intuito, per cui dalle tue mosse sono in grado di comprendere se sei uno “possibile” o uno da lasciar perdere.
D.: Con la musica jazz nasce un parallelo che non mi sento di trascurare. Sia il fotografo che il musicista di jazz sono “collezionisti di attimi” e direi che le discipline che frequentano si avvicinano, per questo motivo. Sulla scorta delle facoltà tecniche che il fotografo e il musicista hanno, entrambi padroni di queste facoltà, entrambi ricercano questi attimi. Esiste questo parallelo secondo voi
R. [Masotti]: Si. Però non lo legherei alla parola improvvisazione, perché in realtà il fotografo improvvisa meno: è legato a uno strumento che di per sé non ha la fluidità, l’elasticità di uno strumento musicale. Realizza qualcosa di “tecnico”, un’inquadratura che insegui, che è disegnata e modulata dalla luce. Finché non vedi quella cosa che ti soddisfa “in macchina” è inutile che scatti. C’è un altro aspetto: il musicista produce una nota dopo l’altra, costruisce un “discorso” o una struttura. Se tu stessi filmando, facendo un piano sequenza, allora lo potresti collegare alla musica con più facilità. Forse sbaglio, ma direi che chi fotografa, soprattutto nel jazz, come nella danza, deve sviluppare grande “velocità di reazione”. Nel jazz l’ascolto reciproco e la capacità di reazione sono le più grandi doti.
Mi sono accorto più volte di poter contare sulla medesima capacità: dato quello che accade sul palcoscenico, posso intuire qual è la posizione dove spostarmi per meglio inquadrare.
Cerco di rispettare una concezione che faccia risaltare la coralità del jazz. Quando inquadro un solista voglio mettere in evidenza il suo rapporto con lo spazio in cui agisce, o con altri.
D.: Il vostro lavoro è a più dimensioni: c’è quella artistica diretta, la documentazione (assimilabile a quello del giornalista o dello storico), ed altre ancora: l’avvicinarsi ad altre discipline artistiche, ad esempio. Ci sono degli aspetti che sono più consoni al carattere, alla personalità di ognuno di voi?
R. [Lelli]: Ci sono i lavori professionali, con un tema specifico da svolgere, all’interno del quale si diramano altri aspetti difficilmente separabili. All’interno di un lavoro ci sono sempre scatti realizzati “professionalmente”, con una precisa funzione, più legati al mandato, comunque riferiti alla tua personalità, ed altri che sai essere più “lavori di fantasia”, che verranno utilizzati diversamente. Sono cose che vanno sempre parallele, tanto che moltissimi dei nostri lavori – penso di poterlo dire anche per Roberto – e le nostre ricerche personali non partono da una commissione esterna, sono costruiti estrapolando immagini precedentemente realizzate che vengono così a mostrare una loro intenzionalità nascosta. Lavoriamo in un contesto abbastanza ristretto e particolare, con la musica classica, contemporanea, jazz e rock, all’interno del quale noi elaboriamo i vari progetti autonomi. Ve ne sono alcuni più specifici, che permettono anche una nostra libertà totale, creativa e tematica, che possono andare per esempio anche verso i video, o verso l’incontro con musicisti contemporanei a cui chiediamo di interagire con le nostre immagini (per esempio per il progetto “Bianconeropianoforte” [www.bianconeropianoforte.com]).
R. [Masotti]: Silvia ha usato la parola estrapolare: in realtà si potrebbe dire che, dato un punto di partenza in cui ci siamo trovati a realizzare certe immagini, con determinate soluzioni visive, ogni volta che si presenta l’occasione per creare ed elaborare la cogliamo.
R. [Lelli]: Possiamo spiegarlo in altro modo: c’è chi fotografa abiti di moda, od oggetti di design, o still life di prodotti, ed hanno progetti per così dire “personali” che riguardano altri temi. Di fatto i nostri progetti sono paralleli e riguardano quasi esclusivamente lo stesso campo …
R. [Masotti]: … o si riconducono fortemente ad esso. Il filone musicale è comunque richiamato costantemente da lavori che apparentemente esulerebbero da esso. Sono canali paralleli, appunto, che inevitabilmente si incrociano e si richiamano sempre. Una volta messi in atto certi dispositivi, questi non ci abbandonano più.
D.: Un altro aspetto peculiare del vostro lavoro: si può dire sia cassa di risonanza, riverbero, che accompagni ed amplifichi il lavoro di altre persone, promuovendo ed evidenziando sfaccettature del loro lavoro. E’ capitato in questo senso che abbiate aiutato a far scoprire alle persone con le quali avete lavorato aspetti inediti, anche per loro stessi?
R. [Masotti]: Direi proprio di si. Non è una presunzione, ma è un dato di fatto. Potrei citare il mio lavoro con John Cage, con Morton Feldman, con Keith Jarrett, o Steve Lacy, o con tanti altri, e di aver avuto conferme di questo, nell’arco di questi decenni. Perché più volte sono state richieste nostre immagini, sono state specificatamente indicate da loro, perché in esse si riconoscevano, ed abbiamo avuto quindi per esse un feedback diretto.
Anche nel rapporto con gli enti, i teatri stessi: è indubbio che nella nostra lunga relazione con il Teatro alla Scala, il Teatro riconoscesse il nostro lavoro, e quest’ultimo abbia costruito la sua immagine. Nostre fotografie sono state il tassello fondamentale per costruire l’immagine di altri personaggi ed istituzioni. Posso citare un’etichetta come l’ECM, e la mostra ad essa dedicata alla Haus der Kunst a Monaco di Baviera, od un’altra mostra tenutasi qualche tempo dopo a Seoul in Corea: nei cataloghi relativi e nelle mostre stesse sono state disposte tutta una serie di immagini d’archivio che rappresentano una storia comune, loro e mia. Credo che Silvia possa raccontare cose del tutto simili …
R. [Lelli]: … c’è veramente da parte di alcuni personaggi il riconoscere la lettura che fai di loro, trovare qualcosa in cui si ritrovano, scoprendo effettivamente lati che hai fatto emergere, se non inediti. È accaduto con alcuni grandi direttori d’orchestra, all’inizio, di avere quasi un momento d’incertezza di fronte a certe fotografie, quasi non si piacessero. Dopo un anno o due si è capito che forza avessero, finendo con l’essere le più usate, magari per dieci anni e forse più. Altre persone, terzi, che queste immagini avevano visto, hanno talvolta influito con pareri autorevoli a che le foto fossero apprezzate. Non è semplice, come si vede, ma neppure troppo complicato.
Così è accaduto per Riccardo Muti, che seguo ormai da trenta anni, e lo è stato per Claudio Abbado.
D.: La sorpresa: quante volte riuscite a sorprendervi dei vostri risultati, data la tecnica che vi è propria, e quante volte invece siete riusciti effettivamente a pianificare il risultato?
R. [Masotti]: La sorpresa è nella constatazione pura e semplice che tu in quel momento, in quella serata, sei “in palla”, sei “sul tempo”. In quelle occasioni è quasi un piacere fotografare, perché hai la sensazione che stai respirando col soggetto fotografato. Questa sintonia ti provoca piacere ed euforia, al di là poi dei risultati.
Èchiaro che questa situazione ne produce di buoni e tante volte è molto proficua, perché certi personaggi sono anche difficili, e più tu sei in sintonia meglio è. Puoi disporre del personaggio: ce l’hai dentro il tuo obiettivo, ma lui si agita, si muove e tu devi coglierlo lucidamente sì, ma attraverso un sentimento musicale, nell’armonia di un gesto.
La sorpresa si verifica quando hai immaginato qualcosa che poi è effettivamente avvenuto. Una volta c’era l’attesa per il risultato (con la pellicola, lo sviluppo etc.), oggi invece bisognerebbe resistere, ma con il tuo occhio vai immediatamente a verificare il risultato del tuo scatto, certo togliendoti la suspence. Delle volte osi, cerchi di costruire un’immagine, e tante volte non riesce: il processo non è così banale, non è così automatico. Occorre effettuare tutta una serie di operazioni, che debbono poi coincidere e confluire in un’immagine. Il risultato delle volte ti fa dire: “Ecco, ce l’ho fatta”, e allora sei soddisfatto, più che sorpreso.
R. [Lelli]: Distinguiamo sempre tra foto “dal vivo” e ritratto in studio, che sono due operazioni molto diverse: nel primo caso stiamo parlando quindi di serate, occasioni, prove, concerti e concerti unici. Nascono grandi responsabilità, quando si è da soli a fotografare un determinato evento: tutto deve venire perfetto, innanzitutto per sé stessi. Nessuno dovrà venire a dire cosa manca di quel momento. Pianifichi delle strategie, non solo affidate alla tua volontà, ma anche ad altri elementi apparentemente estranei: quanto pubblico c’è, dove ci si può collocare, cosa si è in grado di inventare, quanta energia e capacità si sia in grado di mettere a disposizione, oltre a … quanto ti piace quello che sei andato a fotografare (ndr.: ride). Ci sono serate in cui “vince il professionismo”, una salvezza…
La pianificazione è comunque sempre poca. Entrambi non siamo così pianificatori, siamo piuttosto legati all’improvvisazione: sappiamo tutti quanto questa sia ordinata, in un certo senso. Diciamo che conosciamo tutti gli elementi da rispettare e cerchiamo di comporli nel miglior modo possibile. Questo magari ti da un po’ più di ansia, ma alla fine la vinci. C’è la voglia di stupire te stesso, di superarti. Più volte mi hanno detto: “Tu fai sempre foto alla Scala …” senza avere idea di quale mondo, totalmente diverso, ci sia di volta in volta. A seconda dell’autore rappresentato, degli interpreti, del Direttore, del clima che da il pubblico, tutto cambia. Non c’è una serata uguale all’altra, mai. La noia in questo senso non esiste.
D.: Ci sono molte fasi della vostra carriera che attraggono la mia attenzione, data anche la consistenza temporale dell’impegno. Tra queste certamente il vostro incarico come fotografi ufficiali del Teatro alla Scala. Come si approccia un impegno di questo tipo? Le esigenze e le intenzioni sono mutate nel tempo, durante questa esperienza? Un lavoro istituzionale è molto vincolante?
R. [Lelli]: È una bellissima domanda, dove si intuiscono già le problematiche che si trattano con un impegno di questo tipo: quando si parla ad esempio di impegno istituzionale o di cambio nel tempo. Quando, Roberto ed io, abbiamo preso l’incarico alla Scala correva la stagione 1979/80 e l’abbiamo terminato in quella 1996/97. Continuando poi tutto il lavoro, sempre dentro il teatro, con l’Orchestra Filarmonica della Scala che abbiamo quindi seguito dall’inizio (1981) sino ad ora. Nel tempo ci sono stati dei cambiamenti tecnologici, e questi non sono pochi: dalla pellicola, ed un lavoro fatto all’80% in bianco e nero e 20% a colori, si è passati ad una percentuale maggiore per il colore. Nel frattempo sono poi cambiati i supporti: il colore che da diapositivo è diventato negativo, viste la maggiore latitudine di posa e versatilità. Si è arrivati – con il 2000 e con il nostro lavoro per la Filarmonica – al digitale. Il cambiamento tecnologico è enorme, ma non è mai cambiato l’approccio, anche se maturato molto, confrontando il lavoro dei primi anni con gli ultimi.
Poi, certamente, bisogna parlare del lavoro istituzionale: con un teatro come La Scala è stato un impegno enorme. È difficile capire dall’esterno quali sono le committenze, le particolari esigenze. Intanto un lavoro su due palcoscenici: c’era La Scala e la Piccola Scala. Poi le tournée. Mentre vedi e fotografi uno spettacolo su un palcoscenico, si sta già lavorando ad un altro, in sala regia, con contemporaneamente il corpo di ballo in prova ed i concerti. Per non parlare delle tournée…Una compresenza, talvolta diabolica, di molte attività: tanto che quando è arrivato l’incarico, volentieri l’abbiamo preso a due, perché capivamo che era grosso. Al tempo stesso avevamo assistenti che ci aiutavano.
La parte di lavoro più istituzionale e quella creativa, cui abbiamo sempre tenuto molto, corrono sempre parallele. Durante la prova generale di un’opera lirica, che è occasione unica per fare le foto migliori e definitive, il pubblico solitamente non c’era e lo spettacolo lo si supponeva pronto. Dal nostro punto di vista significa anche noi essere arrivati alla prova generale, dopo avere seguito tantissime prove. In quella stessa sera occorre fare immagini che siano utili per il quotidiano, per il settimanale, per il mensile – tre tipi diversissimi di immagini – immagini che devono rimanere nell’archivio del teatro e costituirne la storia, immagini che debbono andar bene per i libri, immagini che debbono andar bene per l’estero o per l’Italia, e devono essere anche evocative della musica e della regia. Devono essere così interessanti da poter entrare in un libro o in una mostra. Tutto questo in quelle due o tre ore, attraverso tutti gli scatti. Devi avere tutto molto presente, insieme, in ogni istante. Dovresti far esclamare un lettore di un quotidiano che vede una foto pubblicata: “ah, però, bella questa cosa, la andiamo a vedere”.
D.: Ci sono tanti momenti ed incontri importanti nelle vostre carriere. Allora ho cercato – arbitrariamente – di selezionarne alcuni per parlarne brevemente con voi. Per esempio la lunga storia di ECM, che Roberto ha vissuto in molti aspetti. Come autore di molte immagini per le copertine, o curando la comunicazione della casa discografica, che è nodale nello sviluppo del Jazz contemporaneo. Sei l’uomo ECM in Italia, in fin dei conti. Cosa hai condiviso in questa esperienza: cosa hai portato e cosa ti ha dato? Qual è stato il tuo rapporto con Manfred Eicher?
R. [Masotti]: È tuttora una storia molto bella. Io sono arrivato lì non come “ragazzo di bottega”, come anche per la Scala. Ho potuto portare, anche già inizialmente nel rapporto con ECM, un mio bagaglio. Guardando anche retrospettivamente, avevo maturato già in pochi anni, dalla fine degli anni ’60 agli inizi degli anni ’70 (è del ’73 l’incontro con ECM), un mio approccio alla musica, dal punto di vista fotografico, che è stato immediatamente riconosciuto da Eicher che, quando ha visto le foto su Jarrett fatte a Bergamo, che sono state il motivo dell’incontro, ha voluto che facessi altre cose di li a poco.
Sono stato ingaggiato tantissime volte: a Oslo e a Ludwigsburg vicino a Stoccarda, per le registrazioni, per servizi. Questo inizialmente, poi i luoghi sono stati tanti ma uno è diventato sintomatico, più recentemente: il monastero di Sankt Gerold in Austria. Se guardo indietro, è stata una cosa di una intensità notevolissima. Il rapporto mi ha anche portato a seguire, sino a pochissimi anni fa, la comunicazione ECM in Italia, cosa che ha arricchito il rapporto. Lo ha nutrito, lo ha reso più fertile, ha fatto in modo che anche la relazione con i musicisti, la casa discografica e la distribuzione italiana diventasse sempre più intensa, in modo professionalmente ineccepibile. Credo che sia un caso abbastanza unico, anche nel panorama internazionale. Lo si è visto in occasione delle mostre che citavamo prima: in queste mostre potevo toccare anch’io (con una certa sorpresa, devo dire) quale fosse stata la consistenza del nostro rapporto, come lo percepivo io, e come veniva percepito dagli altri. Parlo di fotografia, naturalmente.
E’ stata una cosa abbastanza unica, il rapporto con Eicher è sempre stato molto libero: una volta che lui mi convocava per una seduta di registrazione, per un servizio, io avevo la massima libertà. Non mi è mai stato detto cosa fare, era solo richiesto che io “facessi”. I risultati si sono visti: la presenza in centinaia di copertine, sulla “front cover” o sulle “liner photos” o nei “booklet”: c’è stata tutta una storia di interpretazione fotografica di quello che è il cosiddetto “mondo ECM”.
D.: Mi vengono in mente un altro paio di nomi: John Cage …
R. [Masotti]: John Cage è stato uno degli incontri umani e professionali più significativi, mutuato dal rapporto con un’altra etichetta, la “Cramps”, per la quale ho lavorato tanto. L’approccio coincideva già con quella modalità di lavoro che Silvia ed io abbiamo sempre cercato di instaurare, cioè di scegliere dei personaggi che ci interessavano e la cui opera ci piaceva seguire. Questo è avvenuto tante volte, fortunatamente. La partenza si ebbe con il celebre concerto del teatro lirico del 1977, in cui ho avuto occasione di conoscere Cage. Poi lo abbiamo in più occasioni rincontrato (Silvia ha seguito Merce Cunningham …). A casa nostra negli anni ’80 ci fu un party dedicato a John Cage ed alla compagnia di Cunningham. Non fu una cosa mondana, ma avvenne per il tipo di relazioni che si instauravano con i musicisti, gli artisti. Con Cage il rapporto è stato molto fruttuoso negli anni a seguire, anche dopo la sua scomparsa, perché abbiamo avuto diverse occasioni di lavorare sul materiale che avevamo raccolto sulla sua figura. Abbiamo prodotto un video ed una mostra sull’esperienza del “treno di Cage” (http://www.johncage.it/1978-treno-cage.html), c’è un grosso libro con la Fondazione MUDIMA dedicato a Cage, poi ancora video: “wallsCAGEwalls” con Alvin Curran … e “Looking for Cage” … Sembrano non finire mai queste cose, continuano a “lavorare”.
D.: … e Demetrio Stratos. Siete stati anche ospiti di un documentario a lui dedicato. In questo caso sono due le domande che mi vengono in mente. Nella prima dobbiamo lasciare un po’ di spazio alla nostalgia: nella figura di Demetrio vedo un po’ lo spirito del periodo in cui ha vissuto: confuso, complesso, ma sembra significativamente più vitale e creativo di quello che stiamo vivendo ora. Cosa ne pensate? Documentando poi il suo lavoro si accompagna un vertice espressivo, una parabola artistica che non è stata comune. Cosa accadde, che ricordo avete di questa esperienza?
R. [Lelli]: Intanto erano i famosi anni ’70, che tanto ci hanno dato (almeno sicuramente alla nostra generazione). Demetrio era un amico, come gli Area: quello con Demetrio è stato un rapporto molto intenso. Lui è venuto a mancare proprio nel momento in cui si capiva bene che cominciava ad avere veramente coscienza di quello che poteva fare con la sua voce. Non possiamo dimenticare quando lo andammo a trovare a New York, ricoverato li, quando ci disse: “ma io sto bene” come a dire “cosa ci faccio qui”. Una cosa che mi è rimasta molto impressa, mi sembra di vederlo in questo momento. Poco dopo tornammo in Italia, e successe quel che successe. Gli Area rappresentavano proprio quel momento storico: la loro musica, la forza e l’energia che avevano, lo dimostra il fatto che quando li risentiamo, e capita spesso, ci sembrano una cosa assolutamente contemporanea, non ci da l’idea di una cosa passata. I nostri figli, questa generazione di 20/25enni, li guardano e li ascoltano come un gruppo di oggi. Con il senno di poi capiamo la loro importanza, ancora di più.
Allora c’eravamo tutti “dentro”. Vivevamo quotidianamente giorno per giorno con loro. Roberto ha fatto fotografie che sono state sulle loro copertine, allora c’era la rivista “Gong”, io ho fatto un lavoro dedicato a Demetrio, per mettere a fuoco proprio questo suo modo di usare la voce, il suo lavoro fatto con le corde vocali. Non me lo posso dimenticare: queste foto scattate quasi dentro la sua bocca, nella cucina di casa sua… Ci sembrava tutto normale: ora sono documenti che sembrano avere molta importanza, più di allora.
R. [Masotti]: Quando avemmo l’occasione di fare la mostra su di lui alla Fondazione MUDIMA, in collegamento con Milano Poesia, uscì il ritratto che sia io che Silvia, a più riprese, avevamo costruito. Rimane un po’ un esempio di quanto si possa andare in profondità con un personaggio, con il suo carisma e tramite la sua disponibilità: accadde perché Demetrio – e gli Area – riconoscevano nel lavoro che tu facevi delle possibilità di sviluppo per loro, all’interno della comunicazione e vicino alla loro arte.
La qual cosa era molto importante per un personaggio come Gianni Sassi, deus ex machina della Cramps, che è stato un maestro in questo senso. Anche lui, come Eicher, si è avvalso dei miei “modesti servigi”, all’epoca.
R. [Lelli]: Mi accorgo adesso (mi rivolgo alle giovani generazioni di fotografi) dell’importanza di non avere sempre la “richiesta dall’esterno”, del non doverla aspettare necessariamente, ma della necessità invece di proporre quello che tu vuoi andare a scoprire, quello su cui vai a curiosare, gli incontri che vuoi approfondire, che creano tutti assieme il tuo archivio. Per archivio intendo qualcosa con un preciso senso, un disegno, che caratterizza anche la tua figura artistica e professionale. Poche delle cose di cui abbiamo parlato ci venivano commissionate, quanto, piuttosto, noi le realizzavamo e poi le proponevamo. Il fotografo freelance deve essere colui che propone in prima persona: la curiosità in questo senso è fondamentale. Tanto per non rimanere mai fermi…
D.: Le esperienze didattiche sono presenti tra le vostre attività. Ritengo siano molto stimolanti. Cosa vi danno?
R. [Lelli]: L’esperienza didattica è nata per la voglia e la necessità di trasmettere ai giovani – con cui noi viviamo sempre, i nostri amici sono spesso più giovani di noi – le tue esperienze. Adesso è facile iscriversi a un corso di fotografia, a un workshop più o meno veloce. Allora, quando noi abbiamo iniziato, non c’erano, quindi abbiamo imparato sulla nostra pelle, con la nostra esperienza personale, anche sbagliando.
Ora è bello insegnare qualcosa che può essere appreso magari in una mattina, ma che per noi può aver significato tanto lavoro, di mesi se non di anni!
A me l’attività didattica da molto: credo dia a me più di quanto io dia a loro (ndr.: ride), perché andando avanti con gli anni, si ha bisogno di rispecchiarsi in questi ragazzi, nella loro energia, per continuare tu ad averla. È un rapporto molto bello …
R. [Masotti]: …anche perché ti porta a riflettere sempre sulla materia: il fatto di dover comunicare con gli altri, esporre temi e concetti, ti porta a meglio definirli, per loro e per sè stessi. Recentemente per me è nata una spinta – ritorno sul discorso dell’improvvisazione – ad inquadrare ancora meglio la stretta relazione che ci può essere tra fotografia (o video) ed improvvisazione: una maturazione anche nella comprensione dell’improvvisazione.
Prima si diceva: fotografo dei jazzisti che improvvisano, e quindi improvviso anch’io. È una semplificazione che non sta in piedi. Nei confronti dell’improvvisazione, cosa faccio, cosa elaboro? Ho voluto creare un workshop specifico, non solo per fotografi, e con alcuni musicisti e performer a collaborare, per studiare insieme quali sono le relazioni con l’improvvisazione. Cosa significa, infatti, essere disponibile a fotografare l’improvvisazione? Cosa ti porta a entrare dentro il corpo dell’improvvisazione, anche fisicamente.
E’ stato piuttosto interessante: sono stato spesso ospite dei corsi di Silvia, come quello specifico sulla fotografia di spettacolo, portando poi degli allievi ai festival Jazz, cercando di capire quali sono le loro reazioni, le loro impostazioni.
Nel caso dell’improvvisazione c’era però l’esigenza di entrare in questo argomento in modo molto più specifico. Ritengo che proprio questo tema meriti ulteriori approfondimenti.
D.: Cosa sono le cose che vi impegnano maggiormente in questo momento, e che vi appassionano? Lavori o progetti che avete in mente?
R. [Lelli]: In questo momento sento la grande necessità di dedicarmi maggiormente a progetti particolari e molto personali, alla ricerca, perché negli anni, a fianco dei lavori professionali, abbiamo abbozzi non ancora sviluppati a sufficienza cui teniamo molto. Poi abbiamo immagazzinato un archivio veramente ampio a cui attingere per questo e che va curato. C’è anche un archivio che è alla Scala (500.000 negativi in bianco e nero, ed un numero un po’ inferiore a colori). Il nostro, che spazia da inizio anni ’70 ad oggi, che va dal negativo al digitale, è solo di poco inferiore come consistenza numerica e conta molte stampe, molti materiali per mostre. Sento quindi la necessità di mettere mano a questa mole di materiale che abbiamo prodotto, e che all’interno ha tantissimi canali che si possono sviluppare, dedicandovi molto tempo, con progetti specifici. Ne ho almeno uno in atto, Roberto ne ha altri, e cerchiamo di portarli alla luce.
R. [Masotti]: Condivido, e posso aggiungere che negli ultimi anni si sono aggiunte le possibilità legate al video – che consideriamo uno dei mezzi che abbiamo a disposizione, non un altro linguaggio necessariamente ma bensì affine – che ci ha consentito di fare diverse cose in parallelo con la fotografia, o mescolandolo ad essa.
Personalmente ho trovato molto stimolo e molta soddisfazione nelle forme di improvvisazione con il video, con il format improWYSIWYG, che ho recentemente sperimentato, coinvolgendo diversi musicisti, trovandomi nella ambigua posizione di essere al tempo stesso uno che contribuiva al progetto con le immagini oppure elemento sonoro-musicale a fianco degli altri. Questo è avvenuto grazie alla intuizione di usare la parte sonora del video – rumoristica, etc. – che ha offerto sinora qualcosa di originale e facendo in modo che la proiezione non diventasse mai solo illustrativa.

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Video
“La vertigine del teatro” – Libro di Lelli e Masotti
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Silvia Lelli e Roberto Masotti intervistati per il documentario “La Voce Stratos”
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L’attimo prima della musica | Silvia Lelli e Roberto Masotti
https://www.youtube.com/watch?v=k_9_ecPV4rU
CM50 | 1979 Roberto Masotti
https://www.youtube.com/watch?v=IXD4UlRPAbI
“La magia della scena” – Lelli e Masotti su Musica, Spettacolo, Fotografia
DAMS Imperia, 22-23 ottobre 2014 – IDfest – Imperia Dams Festival