In ricordo di Enzo Mari

Enzo Mari

E’ mancato oggi, a 88 anni, il grande designer e teorico del design Enzo Mari.

Per ricordarlo pubblichiamo l’intervista a Mari realizzata da Marco Aruga nel 2008, alla mostra che la GAM-Galleria D’Arte Moderna di Torino aveva dedicato al grande designer novarese, nell’ambito di Torino World Design Capital 2008.

 

ARTSCAPES #19, Enzo Mari, “Etica ed estetica”, intervista a cura di Marco Aruga

Per molti coscienza critica del design italiano, uomo d’altri tempi, se vogliamo ricordare una argomentata distonia con un mainstream luccicante e ponderoso che gira talvolta attorno al tema, più attento al ritorno immediato che rivolto alla possibilità di lasciare un segno.

Un remare ostinatamente al contrario, o meglio un progettare percorsi ancorato ad un porto formato da buon senso e lungimiranza, studio interdisciplinare e memoria, dai consolidati e condivisi paradigmi, su cui costruire.

Ruvido e severo, ammiraglio sulla tolda di una solida nave che immaginiamo composta di robusti componenti primari, facili da reperire, semplicemente assemblati e pronti ad affrontare il mare, e a combattere.

Del resto, come diceva lo stesso designer “Progettare è un atto di guerra, non un gioco”. Si assume che sia stato un confronto armato con il deja vu, ma è qualcosa di molto più articolato. Il progetto deve avere un’anima, supportarsi su una logica che lo rende in qualche misura necessario, deve trovare il giusto spazio all’interno del costruito, e della storia, ed eventualmente emergere per la sua combinazione – puntando all’ideale – di giustezza/utilità/razionalità.

Nulla di meno, perché non vale il tentativo se non si è dotati di tutti questi strumenti. Più che ambizioso, ma perché dovrebbe essere meno? Perché perdere per strada qualche elemento chiave del proprio agire? Meglio piuttosto distillare il risultato, togliendo impurità, correndo anche rischi, ma molti a ragion veduta calcolati. Un percorso che dovrebbe essere proprio di ogni progetto, anche quello personale ed umano, si suppone.

Di solide cose occorreva discutere, quando si parlava con Enzo Mari, che altrettanto concretamente disponeva i suoi pezzi sulla scacchiera, ognuno con valore e funzione precisi.

Un atteggiamento non comune: ed ecco che Mari si trovava a fare l’involontario guru, a costituire un punto di riferimento, seppure non facile da tenere, con rigore e foga.

Anche i suoi oggetti sono stati spesso ruvidi e primari, come l’uomo: una putrella disassata diviene un contenitore (Putrella, 1958 – Edizioni Danese), un “kit D.I.Y.” per costruire una sedia diviene un “classico destrutturato” che si interroga su forma/funzione, creatore e produttore, e nulla lascia al decoro (Sedia 1, 1974 – Artek), i suoi animali di legno ricomposti in un ordine innaturale, incorniciati con un gioco di prestigio in un rettangolo, sembrano in realtà richiamare la natura, la sua perfezione e proprio il suo ordine (Sedici animali, 1957 – Edizioni Danese), un essenziale tagliacarte ci riporta alla sua stretta analisi di semilavorato e prodotto finale (Ameland, 1962 – Edizioni Danese). La semplicità è comunque risultato complesso da raggiungere.

Un rigido umanista, perché il compromesso non è dato quando si parla di valori: un atteggiamento che elimina il fronzolo, poi l’inutile, poi quello che non ha senso. E che lascia una nuda bellezza, per chi la sa guardare l’unica che conta.

Questa è l’intervista che abbiamo avuto occasione di raccogliere in occasione della mostra che la GAM – Galleria D’Arte Moderna di Torino aveva dedicato al grande designer novarese, nell’ambito di Torino World Design Capital 2008 (“L’arte del design”)

D.: Come possiamo parlare di equilibrio in un progetto, in un mondo così squilibrato?

R.: Per poterne parlare, prendo ad esempio l’IKEA. Quando dice “noi possiamo vendere qualsiasi cosa che qualsiasi persona può comperare, indipendentemente dal suo reddito” … è vero, il giovane svedese che 70 anni fa, in una stanza di 12 metri quadri, aveva coltivato quell’idea, ci credeva, … ma oggi?

All’IKEA ci sono prodotti “civetta”: una sedia che costa 12 Euro. Vi faccio subito i calcoli. Non sono calcoli miei, ma calcoli che fanno tutti gli economisti. Un minuto di lavoro operaio viene pagato nel negozio una certa cifra. Il legno oramai costa caro, e i trasporti costano un’infinità.

Quella sedia, per essere venduta a 12 euro, è stata pagata meno di un euro, sul luogo di produzione.

Come la mettiamo? Io parto dal presupposto che la qualità che rileva in un oggetto di design non è quella legata al consumatore, è quella di pertinenza di chi la fabbrica. Conta se le persone che vi lavorano sono minimamente contente, se partecipano al progetto, se possono mangiare a sufficienza…

D.: L’arte è ciò che tocca il cuore? O l’intelletto?

R.: Deve toccare il cuore, ma ad una condizione …

Questo lavoro – come tutti gli altri – è fatto perché il nonno lo faceva, oppure perché si visitano e si conoscono i musei … e un giovane può dire, emozionandosi su quelle cose: “Allora questo lo faccio anch’io”, e si mette in competizione con il capolavoro …

Per l’arte noi abbiamo un riferimento sicuro – è tutta la vita che ci penso -.

Sono impressionato dal paradigma della scienza, che è l’unica democrazia esistente. La democrazia è l’uguaglianza della conoscenza. Le altre forme di democrazia possono essere passaggi intermedi, ma sono forme imperfette, a confronto. Non mi dimentico mai che Hitler e Mussolini, e anche Berlusconi, sono stati eletti, democraticamente.

Il paradigma della scienza è semplice: tu puoi parlare della tua invenzione a condizione che ci fornisca degli strumenti materiali per verificare se quello che dici è vero o no. La tua invenzione comprende tutta la storia precedente, la giustifica, è un momento di un’evoluzione. Altre chiacchiere non sono ammesse, non fanno parte del mondo scientifico.

Nell’arte questo non è possibile, c’è un grande caos…

Allora ho trovato qualcosa che è vicino ad essere un paradigma. Se noi prendiamo i migliori 100 storici dell’arte, scelti nei diversi paesi, li mettiamo insieme e non gli facciamo parlare dell’arte attuale – lì sono coinvolti, ci sono interessi, … – e gli diciamo: “Non parliamo degli ultimi duecento anni. Ciascuno di voi elenchi i 100 capolavori della storia dell’uomo”. Sono sicuro che elencano gli stessi: ebbene, quei capolavori sono il nostro paradigma.

Non occorre avere 12 lauree, basta solo andare e vederli … non è che i musei di arte antica sono tutti pieni di capolavori. Spesso nei musei ci sono cose un po’ così, e non è detto che si è pronti a capire un’opera, ma se ci si appassiona, ci si avvicina, allora dopo un anno o due c’è … un colpo al cuore. Non è “mi piace, non mi piace”, è un colpo al cuore, come scoprire Dio.

Parlare di arte, produrre arte, presuppone del discutere di questo colpo al cuore, a condizione che si sappia e si conosca questo profondo coinvolgimento. Se no, qualsiasi cazzata è possibile.

D.: Il fatto di essere artista e designer è stato vissuto da lei come una dicotomia o semplicemente un modo di esprimere sé stesso in contesti diversi?

R.: Sono cose ovviamente molto differenti, ma che sono partite – nella mia esperienza – quasi insieme, secondo due interessi precisi.

Uno era quello di capire cos’era l’arte, non solo da un punto di vista radicale e generale, ma anche nella pratica, misurandomi con qualche frammento del produrre arte.

Per esempio, mi interessava molto l’ambiguità percettiva dello spazio, e realizzavo dei modelli concreti per verificare e per capire.

Dall’altro lato, proprio perché mi sembrava che in quegli anni a Milano – ero molto ignorante, non avevo mai viaggiato, non sapevo nulla … – i luoghi dove si parlava d’arte mi sembravano equivoci e falsi. Erano piccole gallerie dove ogni tanto c’era qualcosa, e spesso c’erano solo pasticci … –

La retorica di quegli anni – “l’operaio salverà il mondo” – mi fa dire allora “vado in fabbrica” per parlare con loro.

Gli oggetti di quegli anni, prodotti in Italia o meno, che non si chiamavano ancora oggetti di design (si chiamavano magari “Biedermeier” o altre cose …) mi stupivano, perché la loro qualità formale era molto scadente.

Mi domandavo perché si fosse persa quella capacità di produrre che l’uomo aveva manifestato in Egitto, in Grecia o nel Rinascimento, dove c’erano dei grandi artisti, ma anche a livello dei prodotti normali e di uso comune – siano stati essi piatti, od altro – si poteva osservare una capacità di realizzare forme essenziali.

Ho cominciato a capire che c’era qualcosa che non andava. Intorno ai 18 anni (ero un ragazzo poverissimo, che doveva aiutare a mantenere la famiglia di 5 persone, ero sempre senza soldi) c’erano dei ragazzi coetanei che vivevano nella stessa strada, che avevano preso dei titoli, diplomandosi ragionieri, o perito tecnico.

Compiuti 18 anni (siamo nel primissimo dopoguerra), immediatamente avevano trovato lavoro.

Io ero timidissimo, non parlavo mai: li guardavo come colpiti da una fortuna: io mi dovevo arrampicare sui muri per riuscire a guadagnare qualche lira.

Ci trovavamo la sera di fronte a un piccolo caffè – dove io non potevo entrare, perché non potevo comprare nulla – e li ascoltavo parlare. Ero molto curioso di sapere di questo luogo felice: dove il sabato e la domenica non si lavorava, si prendeva uno stipendio, che faceva sì che ci si poteva comprare le scarpe e bersi un caffè … . Mi sembrava un paradiso in terra, un luogo di quel tipo.

In sei mesi i miei amici, però, non parlarono mai del luogo di lavoro. Erano i tempi di Bartali e Coppi: uno parlava del cambio Campagnolo, l’altro parlava della sua raccolta di francobolli, …

Di colpo capii che il luogo istituzionale del lavoro significava “alienazione totale”. Quindi dissi “farò un lavoro libero” … quello che mi consente ora di arrabbiarmi!

D.: “L’imperatore è nudo”. La contingenza storica ci indurrebbe ad essere più sobri … una razionalità nei consumi è auspicabile?

R.: La crisi di cui parla oggi è solo l’inizio della crisi. Non si risolverà più. Di fronte abbiamo una classe dirigente che è o completamente ignorante o spaventata di dire la verità. Perché se dice la verità immediatamente, anche i suoi elettori normali, gliela farebbero pagare… le persone hanno bisogno di sogni, anche se sono fasulli.

Perché non si risolverà più? Non sono mie affermazioni: sono lettore attento di riviste scientifiche. Tempo fa lessi un articolo impressionante scritto da economisti americani. Discutevano sulla consistenza del pianeta: se non ci fossero contraddizioni e prevaricazioni il mondo consentirebbe di far vivere dignitosamente 5 miliardi di persone perché la superficie che può produrre – patate o ferro o altro – basterebbe. Bastano due ettari per persona, se dividiamo con equilibrio tutta la superficie del pianeta, escludendo l’Antartide.

Dopodiché verificarono quello che succede in realtà: ogni abitante degli Stati Uniti – compresi i poveri – consuma per 6 ettari, ogni abitante dell’Europa consuma circa per 5 ettari, la Cina e l’India attualmente consuma per 1 ettaro a testa – ma ancora per poco – l’Africa per 1/2 ettaro.

L’unico luogo che pare in equilibrio – ma rimane da abbattere l’intera Amazzonia! – è l’America Latina. Ma andate a vedere le città per vedere se siamo in equilibrio …

Si parla di libero mercato, di economia globale, … ma la realtà è questa. Oramai molte persone pensano che sarebbe giusta l’autarchia, sarebbe più dignitosa, più onesta.

Ho visto un film impressionante sulle torri gemelle di New York, fatto per comprendere cosa succedeva all’interno, visto che nella seconda torre più di 1500 persone sono riuscite a scappare. Hanno ascoltato i loro racconti.

La cosa impressionante è questa: si sono salvati gli operai. Quali operai? I pompieri di servizio, quello che scopa per terra, le persone “senza titoli di studio”. Tutti i manager, quelli che vanno in giro con il loro computerino, erano seduti negli angoli delle stanze e piangevano, non sapevano che cosa fare.

La società oramai è formata da 50% da cyborg, il resto sono umani. Qui c’è speranza.

L’orrore che arriverà – e sarà non solo il surriscaldamento climatico, la mancanza dei materiali – saranno guerre e genocidi. C’era un ragazzo che mi chiedeva che lavoro potesse cercare. Io gli ho consigliato di andare a fare la guardia armata, nei tempi medi o brevi sarà una buona opportunità di lavoro. Tutti i ricchi e riccastri si metteranno in fortini e si difenderanno dalla gente che è fuori.

D.: La bellezza non ci salverà allora … speravo che il buon design potesse contribuire anche a renderci più consapevoli …

R.: La bellezza è una parola ambigua. Ciò che conta è l’essenza: la forma corrisponde all’essenza delle cose. E taluno può poi chiamarla bellezza. O etica.

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Lezioni di Design 1

Lezioni di Design 2

Enzo Mari for Artek: Homage to Autoprogettazione

RAI 3 – Intervista di Maria Paola Orlandini (2012)