ARTSCAPES #27, Olafur Eliasson, “In piena luce”, intervista a cura di Marco Aruga
Nell’ambito della mostra “E luce fu” allestita presso il Complesso Monumentale di San Francesco a Cuneo, progetto realizzato dal Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e Fondazione CRC, trova ospitalità “The sun has no money”, opera di Olafur Eliasson, lavoro facente parte delle collezioni del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea.
Così appaiono certi scenari dell’arte contemporanea: come un grande gioco, in cui gli attori coinvolti trovano maggiore forza dall’unione di energie diverse, ed il loro impegno ne guadagna, in modo tale da raggiungere un risultato maggiore di quella che appare essere la semplice somma delle parti che sono state impiegate.
Chi opera sulle intersezioni delle discipline si può trovare a formare “un’onda” che involge campi non previsti dalle culture entrate in gioco, così come a formare una “quarta dimensione” operativa, inizialmente non prevista. È il gioco delle ibridazioni, fucina di nuove opportunità, che più spesso che ridursi a mera sperimentazione, si trova a creare inedite soluzioni.
È spesso li che troviamo Olafur Eliasson: irriducibile a normali categorie descrittive, è il taumaturgo del possibile e del concreto, un ossimoro necessario per scoprire quanto la magia ci scorra accanto, quanto si possa trarre dall’osservazione metodica del creato, quanto questo di per sè sia oggetto di meraviglia, e quanto si possa fare per porlo in evidenza, per proporre nuovi livelli di consapevolezza, se non di coscienza.
Allora la luce, per esempio: evocare come mezzo espressivo per la propria arte un elemento così primario, e così carico di significato, è un importante passo in quella direzione.
Ed ancora l’acqua: scomposta in fattori primi, riletta su piani diversi da quelli normalmente in azione. Questo mentre lo spazio diviene attore a pieno titolo dell’opera: sia esso lo spazio naturale, o quello artificiale costruito dall’uomo nel quale inserire l’opera, o quello nato specificamente perche l’opera stessa abbia luogo ed entri in azione – in certe occasioni interrogando e proponendo direttamente ai suoi abitanti nuovi modi di incontro, di scambio e di relazione (il ponte Cirkelbroen a Copenhagen,/ “The parliament of reality”, per il Bard College di Annandale-on-Hudson, negli Stati Uniti) riverberando alcune di quelle domande che affollano i pensieri degli spettatori dei suoi lavori su grande scala.
Sono mezzi che possono essere letti con leggerezza, frutto dell’esperienza comune che con questi elementi condividiamo, che radicano la loro forza in un patrimonio ancestrale, dotate di una essenza che possiamo definire sacra, che probabilmente deriva dal nostro diretto coinvolgimento, elementi che qui si ritrovano ad essere essenzialmente strumenti di conoscenza.
A mettere in gioco l’esperienza del fruitore – a confronto, spesso diretto, con il suo lavoro – è la sollecitazione della percezione, stimolata in modi inusuali, con la sua amplificazione o, al contrario, con la sua riduzione ad arte: pulviscoli, nebbie, buio, rifrazioni, immagini moltiplicate e riflesse, presenze fuori luogo, ribaltamenti di senso, spiazzamenti indotti, … fanno parte del vocabolario dell’autore.
A produrre o comporre l’idea originaria è un pool di persone che accompagnano Olafur Eliasson nella sua avventura e che lo aiutano ad allargare quella “lente di ingrandimento” che sembra essere lo strumento per eccellenza con cui l’artista – di origine danese e di famiglia islandese – guarda al mondo: pronto a cogliere i legami profondi che tengono i fili del grande gioco, pronto a riprodurli in sedicesimo, a ricostruirli per proporre nuovi punti di osservazione, o ad osservarli e riproporli in teche dell’immaginario, dove possiamo andare a visitarle e rivisitarle, ogni volta che ne abbiamo desiderio, per interrogarle ed interrogarci.
Ingegnere tanto quanto artista, filosofo come poeta, scienziato e sperimentatore, il suo lavoro – a dispetto del costante understatement dell’artista, della discrezione e della misura del suo personale manifestarsi – induce una diversa considerazione dell’arte tutta. L’arte, che è un efficace strumento di riflessione, e possiede un enorme potenziale di condivisione e partecipazione.
Per stimolare – alla fine – una diffusa, serena, profonda attenzione per le cose del mondo, e per indurre un pensiero nuovo.
D: Lavori in uno dei luoghi del mondo che cambiano più rapidamente, cioè Berlino. Il tuo stesso studio è una sorta di laboratorio con vari progetti in corso d’opera, che coinvolgono una squadra di artisti e di tecnici. Questa situazione è molto lontana dallo stereotipo in cui l’artista è da solo, e dialoga con la sua anima e la sua ispirazione. Puoi descriverci il tuo lavoro di ogni giorno, i tuoi metodi di lavoro, le tue fonti di ispirazione?
R.: Non penso che l’arte contemporanea sia molto differente da quella del passato, sotto certi aspetti. Ma – detto in altro modo – non ritengo che il mio modo di lavorare sia particolarmente differente da quello di altri artisti contemporanei. Non penso che sia così inusuale coinvolgere specialisti di altri campi, che sono migliori di me in questi settori. Non credo di essere speciale, in questo senso.
Per un artista contemporaneo ritengo sia normale usare elementi e materiali che provengono dalla società, dalla vita di ogni giorno, coinvolgendo scienziati che lavorano su progetti altrettanto contemporanei.
Questo avviene anche perché scorgo un certo potenziale dal non essere molto differente dalle altre persone. Sento veramente di avere molto in comune con le persone che vivono nel mio stesso ambiente sociale.
Occorre demistificare la produzione dell’arte e dire invece che la produzione artistica deve trovare posto naturalmente all’interno della nostra società, non è qualcosa che è al di fuori di questo mondo.
Fare arte e guardare l’arte è qualcosa che facciamo all’interno di questo mondo.
Il mio studio e il mio lavoro ne sono parte e quello che faccio – nel modo in cui io lo vedo – è parte del cambiamento del mondo, ed esprime una stretta relazione con esso.
Non è una rivoluzione, non costituisce un manifesto, ma esprime un modo per entrare in dialogo con il mondo, cosa che crea di per sé dei cambiamenti.
D.: Molti dei tuoi lavori richiedono una forte partecipazione del pubblico. Qual è la tua posizione attuale su questa possibilità? Come un’opera d’arte può stimolare la partecipazione del pubblico? Come consideri poi la questione dell’accesso del pubblico all’arte contemporanea in particolare?
R.: Penso sia importante dire che – in relazione all’estetica del consumismo che la società nella quale viviamo organizza intorno a noi – l’arte funziona in modo diverso.
Questa società, ed i suoi strumenti, cercano di vendere sé stessi, in prima istanza, mentre l’arte fondamentalmente no.
Quando un quadro è costruito con un determinato colore o stile, non è pensato in tal modo per renderlo più vendibile. Se poi questo modo di essere lo rende più attraente e, per questo, vendibile, è un’altra questione, e riguarda il mercato dell’arte.
Abbiamo bisogno di comprendere che l’esperienza dell’arte ha bisogno di un diverso coinvolgimento da parte dello spettatore.
La “chimica” che nasce da una tale esperienza è realmente basata sul proprio personale impegno, e sulla possibilità dell’opera d’arte di aprirsi a questo impegno dello spettatore.
È qualcosa di unico, che non troviamo in molti aspetti della nostra società.
Se poi si analizza la peculiarità di questa esperienza, ci si trova di fronte a possibili valutazioni diverse: può essere stata molto piacevole, ma anche molto critica. Occorre valutare quello che accade quando ci si trova di fronte all’opera.
Non è certo una esperienza assimilabile a quella che si prova in centro commerciale, ove il focus è regolato sul fatto di comprare o meno.
Siamo invece in un campo culturale, dove le capacità di analisi e di critica contano. Nella storia della critica d’arte troviamo anche la storia dell’umanesimo, della sociologia e della politica, della nostra società, in ultima istanza.
Fruire dell’arte essenzialmente significa riflettere sulla società. Questo in termini astratti, ma ritengo che sia stato così in passato, e sia così ancora oggi.
Dobbiamo coltivare il fatto di non confondere l’arte con il commercio.
D.: Circa il legame tra il tuo lavoro e la natura, ritieni che l’artista abbia una responsabilità sociale, e che il tuo lavoro possa testimoniare il tuo impegno in questo senso? Essendo elementi naturali parte dei tuoi mezzi espressivi, pensi che la tua arte possa essere strumento di coscienza collettiva, per un più profondo approccio ecologista alla realtà. ad esempio?
R.: Ho cercato di dire – in passato – come la mia arte non sia normativa, nel senso di portatrice di affermazioni morali. In realtà non sto cercando di insegnare alle persone.
Certo, è portatrice di senso, ed il suo significato diviene parte del mondo, ed io ho la mia visione del mondo. Alcune delle mie opere hanno poi uno specifico impatto ambientale ed ecologico.
Penso fondamentalmente che l’esperienza dell’arte consista nel porsi delle domande, anche quindi sulle proprie responsabilità di fronte al mondo, e che questo processo possa portare ad un più elevato livello di responsabilità, anche circa l’ambiente ed i suoi problemi.
Ho usato i fenomeni naturali – prendendoli dalla natura – come se questa fosse una cassetta degli attrezzi.
Non penso però che necessariamente la natura possa essere interessante, senza le persone che in essa vivono. Non sono un ecologista radicale, che pensa che la natura – da sola – sia importante per sé, penso sia lì per le persone. Ma certamente dobbiamo insegnare a noi stessi e ai nostri bambini a proteggere la natura.
Nel mio lavoro, cerco un equilibrio. Faccio quello che faccio per le persone, ed uso la natura come un medium, perché è in grado di parlare ad un numero molto grande di persone.
D.: Questo può essere legato all’attenzione che dedichi alla percezione ed ai meccanismi della percezione. È un’esigenza interiore, o una reazione ad un mondo complesso, o un desiderio di spingere le persone a guadagnare un più alto livello di analisi ed attenzione?
R.: È bene parlare del fatto di avere una percezione più elevata e precisa della realtà, ma occorre fare attenzione a non voler creare un elite, e giudicare che le persone che vi accedono come migliori. Dobbiamo fare arte in modo da evitare il formarsi di regole universali su cosa è giusto e cosa no. Certo, le regole servono, ma sono anche relative, e dipendono dai contesti dove operano.
Possiamo parlare dei principi dell’esperienza, dell’estetica e dell’etica, delle idee circa la percezione e la conoscenza, ma è importante affiancare ad essi la nozione di individualità, di singolarità, nella società.
Dobbiamo fare attenzione nell’usare concetti romantici nell’arte, che possono portare ad uso di argomenti essenzialistici, che dividono tra ciò che buono e cosa non lo è, che possono divenire anche concetti totalitaristici, ed esclusivistici, quando per sua natura l’arte ha carattere inclusivo.
LINK
Il sito dello Studio Olafur Eliasson
The making of an artwork. Making Your Star 1/6, 2015
Merce Cunningham Dance Company performs within The weather project at Tate Modern, 2003
Art That Challenges The World | Meet Olafur Eliasson | The Creators Project
Olafur Eliasson: Playing with space and light – TED 2009
WIRED visits Olafur Eliasson’s Berlin studio
Olafur Eliasson: A Riverbed Inside the Museum – Louisiana Channel – 2014
Olafur Eliasson Interview: The Shape of an Idea – Louisiana Channel – 2014