Pavarolo e Museo Studio Casorati: la scelta vincente di aprire all’arte contemporanea spazi non convenzionali

La mostra“dona ferentes” di Manuele Cerutti e Francesca Ferreri, a cura di Francesca Solero, al Museo-Studio Felice Casorati di Pavarolo e negli spazi del paese riconvertiti all’arte contemporanea, chiude al pubblico anticipatamente, in osservanza al lockdown imposto dal Governo con il Dpcm del 3 novembre 2020, ma prosegue in maniera virtuale sul sito www.pavarolo.casorati.net, con le immagini delle opere dei due artisti, per permettere a tutti di continuare a godere dell’esposizione.

Un grande afflusso di visitatori (quasi 200 nel primo fine settimana di inaugurazione e una media di circa 30 persone ogni successiva domenica di apertura) e di apprezzamento da parte del pubblico.

Tutto ciò va a conferma, come hanno sottolineato gli organizzatori, della scelta realizzata nell’ambito del progetto “Memorie e Visioni Contemporanee. Lo Studio Museo Felice Casorati e il Borgo di Pavarolo dialogano con l’Arte Emergente”, promosso dal Comune di Pavarolo, in collaborazione con Archivio Casorati, comitato scientifico Studio Museo Casorati, presieduto da Francesco Poli, associazione Plug IN, Residenze Casa Casorati, con il coordinamento della sindaca di Pavarolo, Laura Martini, di aprire all’arte contemporanea spazi non convenzionali, come negozi chiusi, per permettere al borgo di rivivere sotto una nuova luce.

La mostra, oltre che nello Museo-Studio Casorati, si è sviluppata come continuazione e ampliamento anche a Casa Casorati e negli spazi della Project room e Emporium Project lungo la via Maestra, strada centrale di Pavarolo. Qui i due artisti, ognuno gestendo il proprio spazio in autonomia, hanno offerto al pubblico un ampliamento del proprio lavoro: Manuele Cerutti presentando una serie di acquerelli e disegni inediti, approfondimenti tonali e variazioni plastiche, intorno al tema della mostra, mentre Francesca Ferreri proponendo un’installazione sonora realizzata espressamente per l’occasione.

Il paese si è così animato e i diversi luoghi abitati dalle opere d’arte hanno permesso di completare la visione unitaria che il pubblico ha potuto a sua volta elaborare e definire con il proprio spostamento.

Il progetto è stato realizzato con il sostegno del Comune di Pavarolo, della Fondazione CRT, nel merito del bando Esponente, e con il patrocinio della Regione Piemonte.

www.pavarolo.casorati.net e www.comune.pavarolo.to.it

 

Il commento della mostra della curatrice, Francesca Solero
Francesca e Manuele non avevano mai realizzato una mostra insieme. Da anni vivono insieme, generano famiglia. Ma l’esigenza creativa di entrambi procede nell’autonomia di ricerche espressive individuali. Utilizzano generalmente due linguaggi differenti. Scultura e pittura, non prive di contaminazioni. Nel disegno trovano un terreno comune, a volte progettuale altre compiutamente concluso.
Gli ultimi anni, complice il caso e le scelte di vita, si sono ritrovati in diverse occasioni a lavorare fianco a fianco condividendo lo spazio: anche a Pavarolo, durante la residenza, pur mantenendo postazioni separate si sono spartiti lo spazio della depandance trasformata in studio. Qui gli sguardi si sono incrociati e l’aria si è riempita di idee silenziose, inespresse, depositate sulla materia dei loro progetti, lo scambio si è sintetizzato nei gesti e in confronti non verbali. Una grande libertà ha dominato questa scelta unita all’abilità di saper essere se stessi nell’apertura. Casa Casorati a Pavarolo d’altronde è da sempre uno spazio condiviso.
Qui è emersa per la prima volta, confidano gli artisti, silente ma chiara, l’esigenza di concepire e realizzare una mostra insieme.
Il loro progetto espositivo si appoggia sulla figura del Colporteur, viaggiatore ambulante di fine Settecento che con un coinvolgimento estremo e ritorni imprevedibili portava la cultura sulle sue spalle in giro per il mondo. Portare è un verbo generoso, attivo, indica pazienza, costanza, non si sottrae alla fatica perché a questa preferisce il valore dell’impresa che sta compiendo. Lontani dalla patina tardo romantica dell’errare gli artisti si concentrano sul valore del PORTARE, sottraendone il contenuto, spostando l’attenzione dalla cosa portata all’azione. Ci raccontano che portare può perdere il complemento oggetto e dichiararsi nell’autonomia del suo gesto, o addirittura rivolgersi a sé: portare per se stessi.
Portarsi può diventare una filosofia dell’agire, un “lavoro come cura”, quasi una spiritualità laica per mantenere la rotta con equilibrio e perseveranza.
Il titolo della mostra DONA FERENTES ricorda l’episodio dell’ingresso a Troia del celebre cavallo che si rivelò dono nefasto, quasi un ossimoro di legno da cui uscì la sgradevole sorpresa. “Il dono in questione non è dunque nulla di materiale, piuttosto, fa riferimento a quel carico di informazioni, potenziali e specifiche, di cui ogni essere umano è dotato fin dalla propria nascita e che costituiscono il suo ‘orientamento’ originario.”(M.Cerutti)
Gli artisti, lasciando le loro opere intenzionalmente aperte a molteplici letture, si interrogano sulle modalità di reggere/portare questo dono, intendendo con esso quella parte dell’io che in diverse culture ed epoche storiche è stato nominato in differenti modi, designando ognuno sfumature differenti: genius loci latino, daimon greco, vocazione o chiamata cristiana, ka per gli egizi, il sé nella psicologia occidentale, la ghianda per Hilmann. Ciò che emerge appare una dichiarazione, espressione dell’urgenza dell’ essere artisti.
“Prima ancora della ragione vi è il movimento volto all’interno
che tende verso ciò che è proprio. (Plotino. Enneadi III)”
Francesca Ferreri presenta un’installazione scultorea realizzata appositamente per la mostra misurandosi direttamente con lo spazio dello Studio. Le pareti si riempiono di oggetti scultorei a forma di mensola che perdono la consueta funzione di sostenere qualcos’altro e si presentano come sculture in sè. Si manifestano come paesaggi scultorei conclusi e collegati tra loro, luoghi su cui far camminare la sguardo alla ricerca di segnali. Le stratificazioni materiche che le caratterizzano, sabbia, pigmenti, cemento, gesso, resine, colore…. le rendono evocative e visionarie, territori geologici da perlustrare e conquistare, abitati da piccoli frammenti di oggetti, residui raminghi di un mondo contemporaneo che sembra lasciarli indietro, fuori dal radar di un consumo strumentale. La loro presenza è sottile, si rivela solo se si rivolge loro un’attenzione curiosa. Un piccolo chiodo, una chiave che spunta, cocci di terracotta, tappi, parti di prodotti di consumo quotidiani galleggiano nell’impasto e nello strato di colore. Persino un piccolo re dorato abbandona la scacchiera per avanzare su queste terre aspre che sembrano rappresentare colorati deserti rocciosi o geografie artiche. Evocano, in apparenza, luoghi silenziosi da conquistare in solitudine eppure ad ascoltarli bene, sprigionano nella memoria associazioni con eco lontane, richiamando al presente tempi remoti.
Quando si guardano tutte insieme, con uno sguardo globale, si percepiscono come moduli compositivi capaci di battere un tempo, generare ritmo. La composizione plastica richiama la grafica musicale, una scrittura a parete quasi neumatica.
C’è il singolo paesaggio, particolare e concluso in sé. E c’è la visione d’insieme. Una sinfonia di variazioni cromatiche le cui distese e salite impervie, i densi sotto sopra si alternano alle zone di vuoto, di sospensione e compongono una partitura. In questo paesaggio corale si muove, con ineluttabile avanzare, l’uomo che porta se stesso, protagonista della grande tela ad olio realizzata da Manuele Cerutti, che campeggia nella parete centrale dello studio, immerso e circondato da queste sculture geologiche. L’artista si ritrae mentre cammina in un paesaggio campestre di una periferia urbana immaginaria in una postura del corpo di matrice classica, una torsione che perde la sostanza plastica e muscolare dei soggetti rinascimentali per avvitarsi, tra densità e trasparenze in un movimento a spirale ascendente.
La figura protagonista di quest’opera richiama l’immagine di San Cristoforo che, come nella pala di Lorenzo Lotto, è immenso, gigante, e in un gioco lillipuzziano pare procedere tra le lande scultoree di Ferreri, tra abissi, accenti, magma e deserti su cui procedere per poi affrontare le distanze.
Nella parabola il santo porta sulle spalle il bambino profetico nella traversata dalla terra ferma alla altra sponda. In mostra Manuele porta un secondo ritratto di se stesso, quel sè che, a tratti meno reale, si rivela più vero dell’io. Si annida sulle sue spalle, quasi fuso in lui, raggomitolato, alcune parti ancora in via di conoscenza, quasi retaggi embrionali di arti periferici non ancora dispiegati.
Si svela “il rapporto asimmetrico tra l’IO e il SE’”. Nella vasta e articolata storia del ritratto, Cerutti si concede di rimanere sorpreso da sé stesso nella doppia valenza di un io che conduce nel mondo e di un sé che pare cogliere la direzione.
Nell’io è assente lo sguardo perché il volto scompare, semicoperto, ma se anche ci fosse sarebbe rivolto indietro, resterebbe all’interno della realtà del quadro, nell’hortus conclusus. Al contempo avanza lo sguardo della figura superiore, di un sè consapevole, che appare timido ma sfrontato, ambiguo e seduttivo. È rivolto al mondo che esce dalla tela. Allo spettatore, ai paesaggi di Francesca, al museo, a un possibile terzo se stesso. Rivela l’intenzione, la sostanza di una direzione.
Se si sposta l’attenzione sull’intero gruppo se ne percepisce il valore unitario, un essere misterico e composito, frutto di una nuova mitologia personale i cui piedi a terra insieme ad uno zoccolo di cavallo, al bastone, e al tronco di una scala (gli oggetti/alleati dell’eroe nel suo viaggio di iniziazione) sono radici della propria storia, narrazione della propria partenza.
A volte recalcitrante e scomodo altre geniale e sorprendente, il proprio daimon può pesare come il mondo o appoggiarsi lieve sulla spalla. La luce o l’abisso verso cui l’uomo tende nel proprio avanzare dipenderà dal rapporto sdrucciolo tra le parti, dall’aderenza e dall’intento delle proprie fibre verso un orizzonte che pian piano si fa chiaro. Perché la sola contiguità fisica o visionaria può tradire distanze e solchi che aprono a zone impervie in cui l’anima può scivolare. Nell’opera di Cerutti la tensione sale verso l’alto, come nella tradizione esoterica occidentale che vede l’io capace di scoprire la vera essenza metafisica nel sé, elevandosi verso l’immateriale, l’eterno. Ma all’atto della contemplazione, che coincide per la filosofia platonica con la separazione dal corpo, l’artista pare preferire (casualmente?) l’eredità arcaica e contemporanea delle pratiche orientali yogiche che hanno l’intento, attraverso la meditazione e l’arresto del flusso di pensieri, di fissare l’io su se stesso, di unire l’io con il sé.
Anche Ferreri nelle sue mensole unisce il sotto con il sopra. Sono luoghi della mente, paesaggi artificiali costruiti e organizzati in uno spazio dato, punti di equilibrio tra caos e metodo in cui si annulla la gravità e si equivalgono le forze del basso e dell’alto. Attivando i dialoghi del sottosopra. Le sculture rappresentano un sistema con cui l’artista affronta il complesso e ineluttabile rapporto tra l’afflato demiurgico e la necessità di organizzare questa voce in una forma e nel mondo.
Non sono pesanti ma sono spesse. Di uno spessore composto da storie stratificate. Sono oggetti da sfogliare, nel senso di indagare, ben consci che lì sotto, nell’invisibile e nel profondo possono esserci tesori inestimabili che a noi non è più dato vedere, perchè la sabbia e il tempo si sono depositati sopra o il colore colato. A volte la pittura arriva a rivelare sottovoce la magia della storia che non torna indietro ma tutto contiene.
Molte volte la strada dell’artista si snoda solitaria. In silenzio. In questo caso assistiamo alla la sorprendente compresenza di due artisti dalle voci e dagli impasti diversi che marciano in parallelo. Insieme sembrano ingrassarsi gli scarponi per apprestarsi alle alte vie, prepararsi la bisaccia, scambiarsi lo sguardo per riconoscersi, allenare i fiati affinché differenti velocità non impediscano loro di mantenere tra le dita il filo sottile che li collega. Ecco perché il silenzio è solo apparente, sotto sotto, o in un’altra stanza, una voce canta.