Peppino Ortoleva nell’intervista di ARTSCAPES dedicata a a Biennale Tecnologia 2022

Per ARTSCAPES#55 – FILES – a cura di Marco Aruga, Peppino Ortoleva “Media surfing vista futuro”

Marco Aruga dedica le prossime video-interviste di ARTSCAPESSOUNDSCAPES ad alcuni dei protagonisti di Biennale Tecnologia 2022.

Dopo Telmo Pievani Derrick De Kerckhovel’incontro con uno degli altri protagonisti di Biennale Tecnologie 2002: Peppino Ortoleva.

Ortoleva modererà l’incontro con Pietro Batacchi e Francesco Vignarca dal titolo “Il lato oscuro della tecnologia – parte 1, sabato 12 novembre, alle 17,30, aula 3 del Politecnico; parteciperà all’incontro con Silvia Cavicchioli, Barbara Curli, Annalisa Dameri, con moderatore Sergio Pace, dal titolo “Quintino Sella e la nascita del Politecnico di Torino”, domenica 13 novembre, alle 10, Salone d’Onore del Castello del Valentino; infine dialogherà con Paolo Busoni ne “Il lato oscuro della tecnologia – parte 2, sempre domenica 13 novembre, alle 17, Salone d’Onore del Castello del Valentino.

(Biennale Tecnologia è dedicata al ruolo decisivo che la tecnologia ha assunto in tutti gli ambiti della vita umana – dalla salute all’ambiente, dai rapporti personali alla democrazia. Si tratta di un appuntamento stabile, organizzato in alternanza con la Biennale Democrazia – che a Torino promuove la diffusione di una cultura della democrazia che sappia tradursi in pratica democratica – per completare in qualche modo questa riflessione e per ampliare lo sguardo alle molteplici facce della tecnologia: strumento umano che proprio dall’uomo è creato, ma che in fondo condiziona in modo significativo la vita di ciascuno. Viene realizzata dal Politecnico. Quest’anno si tiene dal 10 al 13 novembre. Il programma di Biennale Tecnologia 2022)

 

In mari agitati serve una guida. Qualcuno che conosca la rotta, intuisca – sulla base della sua esperienza – come possano manifestarsi gli eventi a venire, come destreggiarsi in mezzo ai marosi, come costruirsi gli strumenti di conoscenza per procedere al meglio.

Fuor di metafora, l’importanza del mondo dei media (il nostro oggetto, proteiforme anch’esso anzichenò. E pregasi leggere: media) è in crescita esponenziale negli ultimi decenni, così come il suo impatto sul tessuto sociale ed il suo manifestarsi.

Di campo molto complesso si tratta, dove nuovi protagonisti appaiono e scompaiono sempre più rapidamente, lasciando comunque tracce profonde, o proponendosi nel tempo trasfigurati e di diversa natura.

Chi si affaccia da protagonista su questa scena ha apparenze sempre meno decifrabili: le potenzialità di uno strumento come il web, ad esempio, si svelano con il crescere dei “tools” che ad esso si appoggiano.

La rete è diffusa e pure pervasiva, in boom costante, ed in costante mutamento di natura: coinvolge un numero crescente di persone, aspirando alla globalità, e li trasforma a poco a poco da utenti in attori, da singoli a (neo)comunità.

L’elemento chiave è quello della partecipazione: chatting, tweeting o altro che sia, il dato relazionale sfocia nel web sociale.

Sotto la lente di Peppino Ortoleva scorre questo magma, ed il suo sguardo attento ed acuto ha seguito lo sviluppo della “media storia”: dai media “diffusivi” ai media “partecipativi”, se è concessa una semplificazione.

Ma lente (e metafora) dei tempi che “abitano” e caratterizzano sono in realtà i media stessi, cartine di tornasole degli equilibri sociali, veicoli e vettori di saperi, pulsioni ed umori.

Accademico di vaglia, storico e divulgatore, Ortoleva ci ha aiutato a comprendere il nostro media-mondo, accettando gentilmente di soddisfare alcune nostre curiosità su questi argomenti, e rispondendo alle nostre domande.

D.: Del suo campo di studi di riferimento si può dire innanzitutto che è difficile immaginare un settore in più rapida trasformazione. Come si trova uno studioso dei media di fronte ad uno scenario così mutevole, con l’esigenza di teorizzare, sistematizzare, comprendere? Di quali armi ci si deve equipaggiare?

R.: Diciamo che la parola mutevole va un po’ articolata, nel senso che i cambiamenti – in particolare nel mondo dei media – non hanno tutti la stessa portata e la stessa problematicità. Teorizzo da tempo che nella storia dei media ci sono stati dei momenti nei quali, in modo convergente, sono successe molte cose significative insieme. Per esempio negli anni ‘90 dell’ottocento sono arrivati insieme il cinema, l’inizio della radio, il telefono e così via. Negli anni ‘30 del novecento la radio come mezzo di broadcasting, il cinema a colori e sonoro, addirittura la fotocopiatrice. Adesso, a partire direi dagli anni 80/90 del novecento, è avvenuto qualcosa di diverso, nel senso che il cambiamento è diventato la regola. E’ accaduto per un motivo di fondo molto semplice: c’è un fenomeno – che prima o poi finirà, ma va avanti dagli anni 60, la cosiddetta “Legge di Moore” – che descrive il raddoppio ogni 18 mesi della potenza di calcolo dei processori elettronici. Questo significa che tutte le macchine (riguarda i computer, gli smartphone ma in qualche misura anche le lavatrici…) si vedono attribuire una potenza di elaborazione e quindi anche di gestione delle informazioni e delle possibilità operative raddoppiata, in un limitato spettro di tempo. Per esempio il web 2.0: definirlo tale, in sé, è una grandissima sciocchezza. Non c’è stato un momento in cui il web è stato esclusivamente “testo” ed un momento in cui il web è diventato “suono e immagine”. Più semplicemente, andando avanti nel tempo si è passati da una fase in cui il web poteva gestire una quantità di informazioni relativamente limitata ad una fase in cui il Web ha cominciato a gestire una quantità di informazioni progressivamente crescente, sia perché cresce la potenza dei computer, sia perché la stessa potenza della rete, per una serie di motivi, sta crescendo. Dobbiamo quindi convivere con una sorta di cambiamento continuo, dovendo cercare di identificare e distinguere una serie di passaggi significativi, ed alcune cose che sono invece un cambiamento per così dire incrementale, relativamente continuativo. Per esempio, io non considero l’IPad o lo stesso smartphone dei passaggi rivoluzionari: considero semplicemente queste macchine come estensioni della rivoluzione fondamentale che è avvenuta negli anni 70 e 80, che è stata il personal computer, in particolare l’applicazione del computer alla vita delle singole persone, con l’uscita del computer delle grandi officine di gestione dell’informazione, con il passaggio alla miniaturizzazione e alla personalizzazione, con tutto quello che ha comportato. Questo processo sta continuando: siamo ancora nell’ambito di quella rivoluzione, che sta entrando in aspetti sempre più profondi della nostra esistenza. Se però noi non capiamo l’importanza di quel passaggio, avvenuto in combinazione temporale con la nascita della rete (due cambiamenti che hanno modificato tutto il nostro modo di vivere) e corriamo dietro alle piccole novità, allora metteremo in evidenza la “rivoluzione” della iPad, poi della sua nuova versione, poi la rivoluzione della macchina che la Apple venderà successivamente, e così via. Questo non significa che non ci siano comunque cambiamenti di rilievo in corso. Per esempio quello che sta succedendo al libro, con la nascita dell’e-Book e dei lettori elettronici: è un fenomeno molto importante, che merita approfondimento. Ma quale mentalità occorre applicare a tutto questo? Occorre guardare attentamente al rapporto uomo-macchina, come ad un aspetto che si modifica profondamente nel tempo. Non è vero – solamente – che siamo noi che cambiamo le macchine, perché le macchine nascono dalla società, e non è vero – allo stesso modo – che sono le macchine che cambiano noi. Fondamentalmente esiste una relazione che muta, profondamente darwiniana, in cui ci adattiamo tutti quanti: noi ci adattiamo alle macchine e le macchine a noi, noi ci adattiamo agli altri esseri umani attraverso le macchine e ci adattiamo alle macchine attraverso gli altri esseri umani.  Questi aspetti sono fondamentali da capire, in questi rivolgimenti. La logica che dobbiamo seguire è quindi innanzitutto di tipo antropico o antropologico.

D.: Come riesce ad immaginare il prossimo futuro dei media? Quali dei trend che si annunciano potrebbero secondo lei più facilmente trovare sviluppo?

R.: Voglio chiarire una cosa: i grandi cambiamenti prendono tempo. Io sono uno storico, di origine, e sono onorato di considerarmi uno storico. La storia non è la scienza del passato: è la scienza dei processi, di quello che cambia e di quello che resta uguale. Naturalmente, siccome noi conosciamo e ricordiamo il passato, il passato è lo strumento principale per capire i processi. I trend più importanti non li capiamo guardando solo l’oggi, ma anche guardando il medio-lungo periodo. Rimane sempre vera la frase di John Maynard Keynes per cui “nel medio periodo saremo tutti morti”, però il lungo periodo rimane essenziale. Non faccio il mestiere del guru, quindi non vi dirò quali saranno i trend di lungo periodo, vi dirò più semplicemente su quali cose sto studiando. La mia sensazione è che siamo di fronte ad un cambiamento della rappresentazione dell’essere umano. Mi voglio spiegare meglio: la rappresentazione del genere umano che ha caratterizzato più a fondo il novecento non è stata tanto legata alle macchine, ma ad una rivoluzione mentale fondamentale che ha attraversato il novecento, che è stata la “sessualizzazione” del mondo. Il novecento è il secolo che va da Freud al Viagra, con la scoperta della carne come elemento essenziale dell’essere umano: scoperta fatta da Freud sul piano scientifico, ma anche dal cinema e dalla fotografia sul piano operativo dei media.E’ il tema di un mio libro (“Dal sesso al gioco. Un’ossessione per il XXI secolo?”). Naturalmente si potrà dire che il sesso è sempre stato un elemento essenziale dell’essere umano, però questa componente è stata per millenni presente, ma col suo spazio ben delimitato. Non si poteva pensare all’essere umano come “impossibile senza sesso”, si pensava assolutamente il contrario: ciò che è successo nel novecento è che non possiamo più pensare all’essere umano senza la componente sessuale. Una delle conseguenze più dirette di questa concezione è che per noi la castità non è semplicemente difficile – quello lo è sempre stata – ma è inconcepibile. Nella società che concepisce l’essere umano come “sexualis”, “eroticus”, come elemento primario, fondante fin dalla prima infanzia, l’uomo o la donna casta sono persone che hanno eliminato una parte essenziale di sé. Questa sessualizzazione del mondo, poi, ha molto a che fare con il rapporto che abbiamo con le tecnologie ed i media (prima il cinema, poi la televisione, poi la rete), perché è relativo all’idea di tecnologia come “svelamento”.Il ruolo fondamentale che abbiamo attribuito alla comunicazione ed alle sue tecnologie, in tutte le sue fasi, è stato quello di mettere a nudo – letteralmente – quello che prima era nascosto.A partire dagli anni ‘80 questa sessualizzazione del mondo si è però banalizzata, ha come perso mordente. Una parte del compito dei media, da allora in poi, è stato anche quello di dare un senso alla vita relazionale che non poteva essere più basato sul sesso: non perché non ci fosse, ma perché ce n’era fin troppo. Il ragazzino comincia a pensare a fare sesso con la sua coetanea non a 14 anni, ma verso gli 11/12 anni, quando non ha ancora in realtà la capacità sessuale piena, ma sa che “bisogna farlo”. L’anziano non può più rinunciare al sesso (di qui il Viagra, e così via). Il sesso da “qualità” è diventato “quantità”, ma io non voglio dare giudizi: è semplicemente successo. Nel novecento si è anche banalizzato l’amore. Se nell’età romantica era la grande potenza dell’essere umano, nel novecento non è scomparso ma è diventato due cose: da un lato il sesso – la “materialità” dell’amore – dall’altro una sorta di grande mito, che ha attraversato tutti i mezzi di comunicazione, per cui tutto “finisce in amore” (nelle canzonette, nei film, …) ma in modo banalizzato. Individuo però un trend successivo alla sessualizzazione che descrivevo: è la grande scommessa che io faccio. Penso sia la ludicità, che ha molto a che fare con il modo con cui viviamo l’esperienza dei computer e della rete. É sempre esistita, beninteso, gli esseri umani hanno sempre giocato, però è stata sempre una sfera separata dal “vivere”, tranne che per i bambini piccoli per i quali “è” il vivere. La mia convinzione è che negli ultimi 30/40 anni la ludicità si stia affermando come la forma del nostro rapporto con gli altri e con le cose. Da questo punto di vista si può leggere anche il trend del cosiddetto “internet delle cose”: se funzionerà, accadrà anche perché è un modello ludico, come quello che ha vinto nei social network. Nei social network ha vinto Facebook, che ha avuto un modello diverso da Second Life. Second Life crea una sorta di isola, che è totalmente separata dal resto della vita, e quindi non ha funzionato. Facebook, invece, è una specie di – chiedo scusa per la parola – “cazzeggiamento” permanente, che trasforma in un possibile gioco di società il fatto stesso di vivere. Questo credo che sia il grande trend, che nasce e “da senso” alle macchine. Faccio sempre questo esempio: il momento in cui si è detto che il computer ha raggiunto l’intelligenza – fino in fondo – degli umani è stato in una partita a scacchi, quella in cui “Big Blue” ha battuto Kasparov. Se andiamo indietro, tutta la storia dell’informatica è fatta di test, che sono ludici. Al computer è sempre stato chiesto di giocare, perché è in quello che si vede la capacità intellettuale del computer.

D.: Rispetto ai media più tradizionali (TV, radio, i libri …): come sarà il loro futuro? In particolare la radio, che sta cambiando vettore (il web) e si sta trasfigurando, o il libro che è in una fase di cambiamento epocale, …

R.: Direi due parole innanzitutto sul libro: il libro non è fatto solo di carta, di inchiostro, lettere … Alle spalle del libro ci sono diverse “tecnologie”: la prima è la scrittura, poi c’è la stampa, poi c’è la scuola, tecnologia a cui non ci si fa mai caso. Noi possiamo leggere i libri perché abbiamo attraversato e partecipato di quell’invenzione così importante, che è stata in grado di trasferire agli esseri umani la competenza di leggere, ed ha razionalizzato la fase di crescita dell’essere umano tra l’età prescolare e l’età dell’adolescenza. Perché è importante la scuola? La nostra idea del libro non è semplicemente fatta di carta e del resto, ma anche dell’idea di testo che la scuola ci ha trasferito. Il grande problema che ha il libro ora è che i nuovi lettori continueranno a imparare a leggere a scuola e continueranno ad avere quell’idea di testo imparata a scuola, mentre nel frattempo la situazione è cambiata. La questione non sarà quanta gente leggerà il libro su carta e quanta invece lo leggerà su iPad, per esempio – come insistono a dire i vecchi “apocalittici o integrati” -, che è un modo insulso ed incompleto di discutere la cosa, che è un po’ come dire semplicemente che la gente non guarda più la televisione ma guarda le cose su Internet. La scuola continuerà a condizionare il nostro modo di leggere, anche quando lo strumento di lettura sarà un altro dal libro. Quali sono le capacità in più che hanno i nuovi strumenti di lettura? Sono fondamentalmente tre. Innanzitutto la capacità che l’iBook o la lettura su computer ha di trasformare il libro in una banca dati: noi attraversiamo questo libro come un insieme di informazioni, non necessariamente da leggere in ordine sequenziale. L’ipertesto offre una serie di percorsi alternativi alla lettura sequenziale. Inoltre c’è la lettura multimediale: un percorso in cui il testo si accompagna a fotografie, immagini in movimento, musica, … La musica la mettevamo già noi – lettori del passato – come sottofondo alla lettura, ma accadrà che Amazon offrirà tre o quattro percorsi musicali con il testo di un libro. Ma tutto questo può essere banale. Io continuo a pormi un’altra domanda fondamentale: che cosa succederà quando leggeremo sempre “a colori”? Sembra una domanda stupida, ma la situazione è cambiata: leggere “la rete” per l’80% significa leggere a colori. Pagine, testi colorati. Cosa porta con sé nella lettura? Io sostengo che senza la tv a colori Berlusconi non ci sarebbe stato. Sono profondamente convinto che la cosiddetta “nuova televisione” teorizzata da Umberto Eco sia la televisione a colori. Con l’avvento del colore cambia la percezione televisiva del mondo.  Ma cosa significherà allora leggere a colori? Queste sono domande da porsi. Per esempio probabilmente si accentuerà la ludicità, in quella attività che era antiludica per eccellenza: il bambino ora o gioca o legge, per definizione. A scuola il maestro intelligente lo fa anche giocare, però sa che il giocare e la lettura sono due attività diverse. Radio: io adoro la radio e penso che sia un mezzo assolutamente straordinario. Che cos’è? Un flusso di informazioni sonore, che scelgo solo in parte.  La prima rivoluzione della radio è stata il passaggio da tre a decine di programmi e canali.  La nuova e successiva rivoluzione della radio si è sentita poco, per un problema di copyright per cui è stata accantonata in Italia: si trattava di Pandora.  Un’intelligenza cibernetica strepitosa, che ti chiede di indicare una canzone, o un musicista che ti piacciono, dopodiché individua piano piano musiche che ti possono piacere. Vengono proposte musiche che, per una serie di parametri (alla fine sono 400 …), sono corrispondenti al tuo gusto – apparentemente – dandoti anche la possibilità di dire se la proposta ti piace o non mi piace. Una volta ho scritto a Pandora, dicendo loro che avevano una bomba atomica tra le mani: erano in possesso di profili di marketing spaventosamente mirati, molto di più che Facebook. L’interazione con Facebook è consapevole, la musica che ci piace è quasi inconscia.  Il criterio di Pandora è radiofonico (io avevo scelto Thelonious Monk, perche è il mio musicista più amato, e mi avevano subito fatto una “Monk Radio” …), cioè un flusso sonoro che scelgo solo in parte. Non è un flusso passivo, è parziale perché non voglio scegliere tutto: perché è faticoso e prevedibile, mentre scegliere solo in parte significa avere delle sorprese, e per di più faticare di meno. La televisione: è molto interessante cosa è successo negli ultimi 30 anni. C’è stato un gran rinnovamento, di cui molti non si sono voluti rendere conto (ma Aldo Grasso per esempio, sul Corriere della Sera, l’ha segnalato continuamente). Negli Stati Uniti è nata una nuova serialità televisiva (“Lost”, “Grey’s Anatomy” o “E.R” ne sono esempi qualificati): diversa dalla precedente, una produzione a metà tra teatro e cinema, di qualità leggermente inferiore al cinema, che sostituisce la qualità con l’abitudine.  Una forma d’arte specifica, che ha subito una sorta di parabola, per mancanza di idee – come capita nel cinema – ma anche perché accade che il pubblico dei grandi appassionati ha usato la rete per recuperare puntate, un segnale importante.  L’incontro tra la TV e la rete è il fenomeno più significativo: con la generazione degli attuali ventenni viene indebolito l’elemento di flusso del mezzo televisivo, mentre viene evidenziato e favorito l’elemento di scelta da parte del pubblico, attraverso la rete. Avevo fatto un inchiesta qualche tempo fa, notando una cosa: quello stesso pubblico che non può separarsi mai dal computer, e che anche le sue scelte musicali, televisive, etc le fa spesso per via informatica, in certi momenti della giornata si “abbandona” alla televisione, che in questo caso quanto più è stupida meglio è. La componente abitudinaria della televisione continua ad esserci. La televisione è la casa, il mezzo televisivo è il mezzo domestico per assoluta eccellenza.  Le persone meno legate alla casa sono in crescita, così per esempio i single, che sono profondamente ludici, in quanto costruiscono la loro rete sociale sulla base dell’idea “ci sto sino a che ho voglia di starci”, e le regole sono solo quelle che si sentono di accettare. Sono anche coloro i quali vedono la televisione esclusivamente come l’abitudine un po’ scema dei loro nonni, un po’ come la torta della nonna (il che non significa che, andando verso i 30/40 anni, non diventino sempre più maniaci della torta della nonna …). La televisione – come medium – in parte è vero che è invecchiato, ma è anche vero che “finché c’è la casa, c’è la televisione”.

D.: Media come mediazione della realtà. Quali sono, secondo lei, i media più importanti quali strumenti di sviluppo delle coscienze e della consapevolezza civile? Mi vengono in mente le opposte esperienze – come esempi – della primavera araba e delle censure persistenti in Asia, e altrove …

R.: Una cosa che sta succedendo e che trovo interessante è il boom del giornalismo in carta stampata e dei libri giornalistici. Un fenomeno in evidenza, che non ci deve però indurre a dare dei giudizi di tipo morale, del tipo “il libro è buono, la televisione è cattiva”. Questo giornalismo possiede alcune particolarità su cui ritengo occorra essere molto cauti. Da una parte c’è l’idea del “discorso”, sul modello del “New Yorker”.  Alcuni dei grandi testi del secolo scorso sono nati su questo giornale: la “banalità del male” di Hannah Arendt nasce da una serie di reportage per il “New Yorker”, ed è uno dei testi chiave della cultura del novecento.  Il modello proposto da questo periodico è raffinato, e recluta alcuni grandi scrittori americani per grandi reportage: William T. Vollman sulla centrale nucleare di Fukushima dopo il terremoto, William Langewiesche che si interroga sulla guerra moderna e sui cecchini americani (entrambi pubblicati anche in Italia, da Adelphi e Mondadori).  C’è richiesta per questo tipo di lettura: per il piacere della lettura, per la possibilità intrinseca del “prenderla un po’ con calma”, un fattore anche un po’ snobistico, ma c’è anche insita l’idea – su cui occorre essere un po’ cauti – che chi sa scrivere bene, vede la realtà meglio. Il che non è necessariamente vero: un grande scrittore di fiction può non avere nessuna capacità di cogliere il reale ….  C’è il mito – in crescita – del testimone d’eccezione, ed il mito – che vedo crescere in modo preoccupante tra i giovani – della biografia: il consumo di biografie è cresciuto enormemente. Perché c’è tutta questa attenzione verso questo genere?  Ne sono esempi la biografia su Steve Jobs, od il libro di Alex Ross “Il resto è silenzio”, storia della musica del ‘900 che descrive i musicisti, racconta nei particolari la vita di Schonberg, Stravinsky e di altri grandi musicisti, ma dice quasi nulla sulla loro musica.  Non è un tipo di informazione, direi, civile: è una richiesta di senso, perché le grandi vite danno senso alla vita.  In una società laicizzata, il massimo è rappresentato dagli exempla, la galleria dei monumenti riacquista un ruolo. Sono generalmente exempla di persone creative, perché oggi la creatività è il grande mito del nostro tempo (ed ha a che vedere nuovamente con la ludicità …), ma presenta dei rischi. Non è affatto detto che la vita di una persona che ha fatto delle cose straordinaria sia di per sé esemplare.  Per fare un esempio: Dostoevskij – che era uno scrittore in grado di andare sino in fondo agli orrori dell’essere umano – per molti versi era una persona spregevole. Pasolini, che è un genio assoluto del novecento, non solo italiano, e ci ha aiutato a capire molte cose, era un pedofilo, inutile nascondercelo. Io lo adoro, ma non credo che la sua vita sia esemplare.  Anche personaggi meno drammaticamente tragici, hanno aspetti della loro vita che non sono interessanti quanto lo sono le loro opere. Questa mania delle biografie ha preso anche il cinema: biografie cattive (Zuckerberg, …) buone, così così (Freud e Jung).  Al fondo c’è un enorme domanda di senso. Una domanda che tempo fa era in qualche modo soddisfatta dalle ideologie, a cui è seguita la fase di “pro-Berlusconi” e “contro-Berlusconi”: per noi appartenenti a questo secondo gruppo, se qualcuno ci parlava male di Berlusconi, in fin dei conti, il senso stava li: Travaglio e Santoro ci hanno campato una vita …  Ma il problema infine è: che tipo di informazione civile è necessario in una società come la nostra, data la complessità contemporanea?  Una domanda che non è banale, che tutti i giornalisti dovrebbero porsi, e a cui probabilmente non rispondono alcune delle tendenze descritte.

D.: É in evidenza un ruolo pedagogico che i media dovrebbero avere, in misura minore o maggiore. Si parte delle trasmissioni televisive in bianco e nero, dove si aveva intenzione – programmatica – di insegnare. Una tendenza che mi sembra più difficile riscontrare nei media contemporanei.

R.: In parte è vero ed in parte no. Faccio un esempio banale, uno dei maggiori successi della rete, che è Wikipedia. É uno strumento pedagogico, a più strati: per chi va a prendere l’informazione, per chi la scrive (è un modo straordinario per imparare, il fatto di scrivere su Wikipedia). É usatissimo, perché chi va sulla rete vuole apprendere. Il problema di fondo secondo me, non è tanto usare la parola insegnare, quanto usare le parole imparareOggi come oggi, quello che è in profondo cambiamento sono le dinamiche dell’apprendimento. La mutevolezza degli scenari induce il fatto che i processi di adattamento siano continui, e l’adattamento – nell’essere umano evoluto – si presenta spesso come apprendimento. Su questo terreno ci sarebbero parecchi ragionamenti da fare.  In primo luogo porre in evidenza che la giocosità serve anche a questo, ad apprendere.  Uso spesso l’espressione di un grande filosofo, poco conosciuto non solo in Italia, il cui nome era George Herbert Mead, uno dei “pragmatisti” americani, il quale, parlando dell’immaginazione e del gioco, dice: “L’immaginazione è una forma di adattamento a un ambiente che non c’è”.  Ecco, il futuro è appunto qualcosa che non c’è, ma noi immaginiamo. Noi siamo sempre al lavoro per adattarci ad un ambiente che non c’è. Il gioco è uno strumento fondamentale da questo punto di vista.  La crescente “ludicizzazione”, che corrisponde anche ad una crescente “adolescentizzazione” dell’umanità – dice Edgar Morin – può essere vista sia in termini negativi, come una sorta di regressione (siamo sempre meno maturi …), sia in termini positivi (siamo sempre più “fluidi”, flessibili, adattabili, curiosi). Questo doppio fenomeno, in entrambi i sensi, porta non tanto a volere qualcuno che ci insegni, quanto a volere gli strumenti per imparare. Il che implica un grosso rischio: se tutto diviene un immenso self-service, ciascuno impara solo quello che gli pare. Il problema politico dell’istruzione sta diventando quello di come offrire a persone che sono sempre più consapevoli del loro bisogno di imparare, una possibilità di imparare più ricca e soprattutto il più “problematica” possibile. La mia grande paura è che in tutto questo quello che sparisce sia il conflitto, mentre l’umanità impara soprattutto attraverso questo processo. Voglio fare un esempio, visto che siamo a Torino, esemplare in questo senso: c’è stata una mostra dedicata ai 150 anni d’Italia, e vi erano descritte le due guerre, ma non c’era il fascismo. Momenti orrendi della storia d’Italia sono stati cancellati, perché il conflitto è fastidioso. Si potevano imparare molte cose da quella mostra, sia per i contenuti, che per le scenografie e l’apparato descrittivo, però il conflitto ne era escluso. È un vecchio vizio delle manifestazioni celebrative, ma rischia di diventare una pessima abitudine contemporanea. Che il web favorisce: più si fanno cose controverse, più si ha rischio – con questo mezzo – che qualcuno reagisca, ti corregga, faccia causa, …  La cosiddetta intelligenza collettiva, teorizzata qualche anno fa da Pierre Lévy (uno studioso sopravvalutatissimo) negava il conflitto.  Nell’intelligenza collettiva siamo diventati “tutti api”, senza considerare il fatto che le api però litigano tra di loro, e con altre specie animali.  Ma noi non lo siamo, ed uno dei motivi per cui non lo siamo è proprio perché giochiamo. Il giocare significa sperimentare un grado di libertà che gli insetti non hanno. Va comunque capito come costruire un sistema di conoscenza immenso, ricchissimo, ove una nozione di intelligenza collettiva possa essere importante, ma quando non nega la conflittualità, e quindi la creatività nel senso migliore del termine, che passa anche attraverso questo tramite.

D.: Ritengo acquisirà un ruolo sempre maggiore nel mondo contemporaneo quello del mediatore culturale. Tra culture diverse, tra colui che desidera conoscere e le barriere all’accesso, di varia natura …

R.: Ci sono istituzioni educative che hanno dei compiti enormi. Per consultare Wikipedia occorre avere determinate conoscenze pregresse, per esempio.  La scuola è fondamentale, intesa come rivolta a studenti dai 3 anni ai 18 anni.  Poi l’università: cambierà completamente forma. Così come è un’istituzione “alla canna del gas”: è nata nel 1100 (a differenza della scuola, nata nel ‘5/600) e va ripensata. Dentro il concetto di mediazione culturale – inteso in senso stretto – c’è poi un pericolo molto grosso. Vi si può vedere divisione tra individuo, cultura e mediatore.  La cultura è fatta di mediazioni. Il termine stesso di cultura è particolarmente controverso, perché ha tre significati diversi. Intanto il significato elitario e rinascimentale del “coltivare sé stessi”: l’uomo colto è uno che ha letto i classici. Una selezione fatta nel corso del tempo, tra i milioni di libri scritti, di alcune migliaia di testi di cui l’essere umano ha bisogno.  Con un problema sorto nel ‘900: in quel secolo il concetto di classico è letteralmente esploso. Mi sono sempre battuto personalmente perché Marshall McLuhan fosse considerato un classico non solo perché è uno dei miei maestri, ma perché dobbiamo capire che sono classici autori che vanno per esempio da McLuhan stesso a Georg Simmel, a Max Weber, mentre nei corsi di filosofia continuiamo a considerare come classici coloro i quali facevano “il mestiere” di filosofo: quindi Heidegger è un classico, mentre Simmel lo è meno. Poi nasce, con l’età romantica, il problema delle culture nazionali: l’idea che ci sono i classici, e poi i classici italiani, francesi, … che è un’idea ancora molto forte, perché è legata allo stato nazionale, ancora fortissimo, nonostante tutto ciò che si dice.  Di default, si direbbe, quando niente c’è più, c’è ancora lo stato. La potenza dello stato non è più ideologica, è appunto di default. Quando viene a mancare tutto rimane lo stato. In questo senso ha un valore assolutamente eccezionale: è l’ultimo muro su cui appoggiarci, in economia per esempio (l’esperienza Monti, in qualche modo, ne è stata un esempio). C’è quindi questa idea di cultura nazionale, legata fortemente all’idea di stato nazionale, inabbattibilePoi c’è un’altra idea di cultura, che nasce con i primi etnologi, intorno al 1870, per cui la cultura è l’insieme delle manifestazioni di una civiltà. Tutti quindi apparteniamo ad una cultura. e la cultura diviene la massima mediatrice della nostra esistenza.  Noi diventiamo esseri umani in quanto progressivamente ci inseriamo dentro una cultura, e viceversa una cultura esiste in quanto forma gli esseri umani. Con questa interpretazione il concetto di mediazione culturale è diventato di una complessità infinita. Tutta la nostra esistenza è fatta di continui tentativi di mediazione culturale. Che cosa sta succedendo?  Nel corso dell’800 e della prima parte del ‘900 una serie di mediazioni culturali strategiche hanno perso la loro potenza: la ritualità e la mitologia. Ci siamo trovati con un “sistema mitico” che ha perso importanza, e così la ritualità. La mia generazione (sono nato nel ’48) è quella che ha visto questo scenario modificarsi, questa “traversata” non a caso strettamente legata al manifestarsi di una vera esplosione della vita sessuale, che è stato come dire: “noi siamo autosufficienti, il nostro stesso corpo basta a noi stessi”.  Naturalmente così non funziona: così stanno nascendo nuove mediazioni culturali – in modo lento e complesso – che fanno rinascere a loro volta nuove forme di ritualità.  Le mitologie nel ‘900 – in qualche modo – sono rimaste. Era da considerare tale anche il Cristianesimo, od altre religioni. Non ne eravamo certamente rimasti privi in toto: da ateo ricordo spesso come l’uomo che ci ha portato viadal ‘900 sia stato Giovanni Paolo II. Il cinema prima e la televisione poi, sono state chiave di lettura di questa nuove ritualità. In questo momento sono più interessato a questa questione.  Per esempio nel campo dei cerimoniali funebri, che per decenni hanno subito un duro colpo, nella pratica: stanno rinascendo con forme nuove, strane e peculiari. Altari fatti di pupazzi e orsacchiotti, gli applausi, palloncini che volano.  Non do giudizi su questi fenomeni: ritengo siano forme di mediazione culturale autoprodotte da una forma di società che sta cercando nuovi modi di manifestazione e di adattamento culturale. In forma darwiniana, quello che funziona verrà conservato, quello che non funziona lo si abbandona.

D.: “Gli strumenti del comunicare” sono sempre più accessibili? Quali sono le opportunità e le minacce che trova in questa situazione? Una volta si diceva “digital divide”: quel confine tra chi era incluso ed aveva accesso ai media più moderni, e che ne era escluso. Lo vedo come una nozione sempre più trasversale e mobile …

R.: Non userei ora più la nozione di “digital divide”, che forse non è mai stata giusta. Nel senso che questo concetto è legato ad alcune categorie sociali che comunque sono meno riconoscibili, a partire da quella di classe sociale. Non significa che non ci siano i poveri: ce ne sono più di prima. Così le differenze di reddito e patrimonio. Ma in una serie di aspetti del vivere, queste differenze non sono determinanti. Parlando di privilegi – quale trovare i medici giusti, per esempio -: le persone istruite possono avere catene di relazioni sociali che portano ad un migliore risultato, quando magari la stessa cosa non accade per gruppi sociali abbienti, ma non dotati delle stesse relazioni.  E’ un esempio banale: io che ho un istruzione di un certo livello uso Wikipedia magari meglio di una persona più ricca di me, a cui certo non mancherà il computer, od “attrezzi” adatti, ma che può mancare di nozioni che in questo campo possono essere utili o talora indispensabili. Credo che ora la complessità sociale vada analizzata meglio di prima, perché ho la sensazione che negli ultimi 20/30 ci siano stati molti conflitti potenziali che sono stati nascosti, e che prima o poi sono destinati ad esplodere. Innanzitutto il conflitto generazionale. Ci sono state tre generazioni che hanno subito costi spaventosi dalle ultime trasformazioni. Sono convinto che in tre/quattro anni questa situazione – per cui intere generazioni sono state punite senza colpa – esploderà.  Un quarantenne che guadagna 1000 Euro perché non va in piazza a sfasciare tutto? Uno dei motivi potrebbe essere internet: gli consente consumi gratuiti che “integrano” questa sua limitata disponibilità economica. Un altro può essere l’Ikea, un altro le merci cinesi. Hanno creato una oggettiva deflazione: nel campo del vestiario, per esempio. O i voli low cost: ci si può concedere dei consumi – ogni tanto – che erano preclusi e costosi. Quindi più che parlare di “digital divide” parlerei di conflitti potenziali che per ora internet contribuisce sostanzialmente a non svelare, che sono legati a diversi livelli di istruzione, ed alle differenze generazionali.  Ma sarà poi proprio internet a divenire un canale di manifestazione dei conflitti, come è stato per la primavera araba. Quale è stata la forza di internet in questo caso? Non è stato semplicemente il mezzo per far circolare le idee: le rivolte si fanno anche perché ci sono delle “bandiere”, e internet lo è stato: si è detto “noi siamo quelli di internet”, si sono riconosciuti in questo mezzo. Un vero e particolare “digital divide” comunque c’è, ed è di nuovo generazionale, e riguarda le persone per esempio al di sopra dei 65/70 anni. Anche se ho intervistato ottantenni che facevano da gestore della rete per tutta la famiglia, nella maggioranza le persone di quell’età non hanno affatto rapporto con la rete, o comunque hanno un rapporto significativamente diverso da quello che hanno le persone più giovani. Lo stesso può accadere per determinati settori della popolazione. Ma la mia sensazione è la seguente: vivo a Torino da tanti anni, nel quartiere San Salvario, considerato problematico, ora quasi alla moda, perché più divertente di tanti altri. Ebbene il mio quartiere è strapieno di internet point per immigrati. Magari non ce l’hanno a casa, però vanno li e fanno di tutto. Possiamo parlare allora di un “digital divide” perché non ce l’hanno a casa? Sì e no, perché il computer lo usano, anche se non con la stessa velocità e scioltezza con cui sarebbe possibile a casa propria. Ritengo occorra rimettere in piedi un’analisi di questa società a partire dalle grandi categorie sociali. Alvin Gouldner scrisse all’inizio degli anni ’70 un libro che si chiamava “The Coming Crisis of Western Sociology” (“L’incombente crisi della Sociologia occidentale”) e già segnalava una crisi delle scienze sociali, nel capire la società. In questi ultimi 30/40 anni questa crisi è stata mascherata da forme di conflitto evidenti, che sembravano molto facilmente leggibili (compreso dinamiche quali Berlusconi/AntiBerlusconi e destra/sinistra, anche se continuate in modo sempre più artificioso) Per me un dato molto importante, e non ancora molto ben analizzato, è il grande aumento dei single.  Di fronte a fenomeni di questo tipo vanno di moda quelle che io chiamo le categorie “a mezza cottura”, come quella della “società liquida” (di Zigmund Baumann), che ci dice semplicemente che la società è diversa da prima, che alcune istituzioni che prima funzionavano ora non lo fanno più, o si sono “fluidificate” (il matrimonio che diventa diversi matrimoni, …), che però non ci spiega nulla. La “liquidità” è un sintomo: il “fenomeno” single, ad esempio, è sintomo non solo della crisi dell’istituzione matrimonio, ma dell’idea che noi abbiamo dell’umanità. Dovremo lavorare sempre di più su ciò è la percezione che una civiltà ha di quello che è umano e di quello che non lo è, che si sta continuamente modificando.

D.: Andremo sempre di più a caccia di senso, visto che sembra una delle priorità più evidenti, e magari abbiamo qualche strumento in più …

R.: É vero, siamo in possesso di qualche strumento in più, ma su questo dovremo essere molto cauti.  Il senso è una strana cosa: ce lo può dare la conoscenza, ce lo può dare il mito – inclusa quella forma di mitologia molto forte che è la religione -, ce lo può dare l’educazione – che è una forma specifica di conoscenza -. Ma di tutte queste, forse la più problematica è proprio la prima, la conoscenza.  Una delle mie frasi preferite (molto reazionaria, di T.S. Eliot, grande poeta) è “dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione, dove la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza?” Il senso per molte società lo ha dato la saggezza: ora non sappiamo più cosa sia questo concetto (il “wisdom” inglese), ha perso di significato, ed io non ne sono nostalgico. Prima di tutto perché non sono nostalgico in generale, né in particolare di un concetto legato all’idea di vecchiaia, a cui la saggezza è legata (per esperienza di vita accumulata, …). Ma cosa c’è di profondo in questa affermazione di Eliot? Intanto che informazione e conoscenza non sono la stessa cosa, e poi che tra le vie per cui arrivare al senso, la conoscenza non è necessariamente la più forte. Questo non significa che non dobbiamo perseguire la conoscenza, ma la conoscenza rimane uno strumento – straordinario – ed il senso può stare altrove. In certo senso la cosa più delicata è la consapevolezza, che potremmo descrivere come la capacità di fare attraverso la conoscenza.  La conoscenza non è un oggetto. Uno dei grandi errori della filosofia occidentale è rimanere attaccata ai sostantivi: dobbiamo muoverci. Eraclito intendeva dire questo, con “tutto scorre”: la conoscenza è un movimento, un “andirivieni” nel quale – ad un certo punto – incontriamo noi stessi. Da questo punto di vista l’accumulo di informazione può essere un bene od un male: un bene perché offre maggiori opportunità di “incontro”, un male perché ci da un tale aumento di dati – anche generici – che poi alla fine questa possibilità di scoprire noi stessi diminuisce. Uno dei grandi problemi emotivi della società contemporanea è l’amicizia. Quella vera è un sentimento fondamentale, raro, complesso da costruire.  Cose che sono per noi ora impensabili, come il servizio militare, sono esperienze che formano anche amicizie straordinarie. Lo stesso dicasi per la scuola. Credo non lo si possa dire però dei social network. Non faccio per parlarne male: si costruiscono relazioni che possono essere importanti, ma le amicizie sono un’altra cosa. Sono ricerche fatte insieme, continue, ininterrotte. Fondamentali anche per la ricerca di senso.  L’amicizia non ha questa “scarica elettrica di senso” gigantesca, ma spesso illusoria, che è insita nell’amore. Dico illusoria, perché l’amore ha carattere quasi religioso: cerchiamo nell’altro qualcosa che è paragonabile al divino (e naturalmente poi non lo troviamo …).  Da qui sempre la delusione. “Illusio” viene da entrare in gioco, mentre delusione significa che il gioco è finito. Nell’amore la delusione è quasi inevitabile, ma la si evita quando l’amore diviene amicizia. Si è rinunciato alla “scintilla di divinità”, si è deciso di fare tanta strada insieme, il che è una cosa bellissima. Questa nostra società è in grado di costruire occasioni di amicizia? É possibile, quando nel frattempo si espande il fenomeno dei single, con le sue implicazioni (tendenza in qualche modo egoistica / egocentrica, ma soprattutto testimonianza del bisogno di mantenere una sorta membrana intorno a se stessi, come psicologicamente necessaria)? In questo contesto, una amicizia è più o meno facile? Si creeranno nuove forme di amicizia? Sono domande che dovremmo porci nei prossimi anni. Discutendo di queste cose, potremmo dire che partiamo da Internet ed arriviamo a Cicerone, ma non è per il gusto delle grandi citazioni. Dentro questi temi proposti delle reti, dai media, etc. c’è in realtà in discussione la sostanza della nostra umanità. Mentre lasciamo – come dicevamo – la filosofia ai filosofi di mestiere, è quello che noi concepiamo come “umano” che è in gioco. Si paventa persino il rischio di divenire “inumani”, in qualche misura.  Dobbiamo ricordare che, tutto sommato, questa è l’epoca più mite della storia umana. Dopo la prima metà del XX° secolo, una delle più feroci della storia umana (e noi, in fin dei conti, non vivevamo in Ucraina …) abbiamo avuto un periodo straordinariamente “pacifico”, ed una parte dei “prezzi” che paghiamo ora sono legati anche a questo. Tanto per dire una cosa banale, se ci fossero delle guerre i 20/30/40enni non sarebbero messi da parte, perché a menare le mani sono più bravi dei 60enni. Quindi, se ci fossero delle guerre, tutta questa situazione paradossale dell’attuale rapporto conflittuale intergenerazionale – espresso solo in parte – non ci sarebbe.  Ci sarebbero però morti e feriti, ed è quindi molto meglio evitarlo, avendo coscienza che le guerre sono “impossibili”. William James, agli inizi del ‘900, dichiarando che le guerre erano ormai inconcepibili (e aveva ragione …) scrisse un saggio meraviglioso, che uscì anche in Italia e si chiamava “L’equivalente morale della guerra”.  In esso si diceva che le società non possono fare le guerre solo se riescono a trovare qualcosa che in tempo di pace ci dia valori che accompagnano la vita in tempo di guerra, e che sono comunque indispensabili: l’abnegazione, un tratto di eroismo, solidarietà ed amicizia, etc… Siamo lì: possiamo nel nuovo sistema dei media trovare, tra le tante cose, l’”equivalente morale della guerra” di cui parlava James?

Link

Wikipedia

http://it.wikipedia.org/wiki/Peppino_Ortoleva

Peppino Ortoleva. Il potere dei media, realtà e leggende

https://www.youtube.com/watch?v=qb8vGdTAcbc

Che cosa non ci ha insegnato la crisi | Peppino Ortoleva – Biennale Tecnologia 2020 – Torino

https://www.youtube.com/watch?v=qdvJkYp3oHg

TechnoTalk – Intervista a Peppino Ortoleva e Giuliana Galvagno

http://www.youtube.com/watch?v=sBZyYXWBdxM

http://www.youtube.com/watch?v=BubZ8SZWouM

Conferenza “Media and Ethnicity” – Peppino Ortoleva

http://www.youtube.com/watch?v=Y4CU98JoQ3U

Per altri servizi, interviste e videointerviste di Marco Aruga, potete inserire la parola chiave “aruga” nella pagina di ricerca [search] in altro a destra, o visitare le playlist di Artscapes [https://youtube.com/playlist?list=PLTex8wGlfxcLgjt3fRa-vdEbDUvMvK5PO] e Soundscapes [https://youtube.com/playlist?list=PLTex8wGlfxcLke0GI1NJ1Ke9I9EJbgVT2] nella pagina di Youtube dedicata a ContemporaryArt Torino Piemonte [https://www.youtube.com/user/BlogContemporary]