ARTSCAPES # 34 – FILES – a cura di Marco Aruga: Anders Kold “Louisiana-The Human Museum”
Per comprendere al meglio la storia del Louisiana Museum of Modern Art è necessario cercare di immedesimarsi nello spirito del suo fondatore, Knud W. Jensen, nello spirito del tempo – il secondo dopoguerra – come fu vissuto nella parte più mite della Scandinavia – Humlebaek, Danimarca che si affaccia sulla stretta striscia del Mare del Nord che la divide dalla Svezia -, e certamente farsela raccontare da chi il Museo – nel suo ormai lungo tragitto – lo ha vissuto.
Di colui che costituì il Museo, magnate dallo sguardo ispirato e dalla spiccata sensibilità umanista, ci racconterà il nostro ospite.
I ricordi dei viaggi del Sig. Jensen, in una magmatica Europa prebellica, l’esperienza del secondo conflitto mondiale, probabilmente gli avranno fatto guadagnare quella prospettiva che mutò nel tempo il Museo a cui diede inizio da centro di documentazione di esperienze artistiche “regionali”, seppur importanti, a centro culturale e fulcro di una serie di attività complesse – molte delle quali anticipatrici di un modo molto moderno di intendere l’istituzione museale ed i suoi obiettivi – e luogo di accoglienza delle varie espressioni del moderno e del contemporaneo, di provenienza eterogenea.
E gli avranno fatto amare certamente quella temperie culturale che rese più facile tutto questo, dopo gli orrori della guerra, in consonanza con la politica danese del tempo – in chiave di apertura ed accoglienza -, dove privati con idee progressiste e lungimiranti potevano condividere con uno Stato, che per suo preciso mandato in quella direzione poneva il suo impegno, ideali di crescita culturale diffusa.
Tra i fini programmatici del Museo, alla luce dei risultati e dell’importanza conseguita certamente raggiunti, quello di ampliare il suo pubblico, senza rinunciare a proposte innovative e di qualità, magari meno conosciute, affiancate con sapienza a mostre ed iniziative di maggiore ed immediata presa sul pubblico, e quello di unire arti e discipline diverse – prima che questo divenisse pratica maggiormente diffusa -.
Il nostro ospite è Anders Kold – Senior Curator al Louisiana Museum of Modern Art
D.: Volevamo conoscere qualcosa di più del vostro particolare museo, le esperienze e le attività che avete qui. Prima di tutto ti chiederei della storia di Louisiana …
R.: La questione della storia del Museo è molto chiarificatrice, perché è importante sapere – in particolare per le persone che vengono dall’estero – che in questo paese Louisiana rappresenta un’eccezione alla regola, in quanto Museo privato. La maggior parte delle altre istituzioni museali sono finanziate dal settore pubblico, sia dalle municipalità che dallo lo Stato direttamente, ed una istituzione di rilievo come la nostra è quindi normalmente gestita dalla Stato. Il Louisiana Museum of Modern Art è stato concepito e gestito da un privato. Nel 1955 il Sig. Jensen, una persona benestante, ereditò il patrimonio paterno e, in gran parte contro il proprio stesso volere, assunse le redini della società di famiglia, che si occupava di lavorazione del latte. In Danimarca l’agricoltura è molto importante. Ma non era sua intenzione dirigere una grande società industriale quanto piuttosto liberarsene, e prendere il denaro per usarlo altrimenti. Nei fatti si occupò dell’impresa molto bene, la modernizzò, e la vendette. Del denaro che ricevette metà lo mise in una fondazione, e l’altra metà lo impiegò in una società editrice, la Gyldendal, che controllò con la maggioranza del pacchetto azionario. Avrebbe potuto realizzare una quantità maggiore di denaro, l’avesse impiegato in campo petrolifero o nelle armi, ma essendo un umanista illuminato lo impiegò nei libri…
D.: Capita normalmente quando i libri li leggi …
R.: Esattamente … viceversa avremmo avuto una vita molto schizofrenica qui, tra armi e belle arti! Comprò questa villa nel 1955, e la aprì al pubblico nel 1958 come Museo, con la sua collezione di arte danese e scandinava del secondo dopoguerra. Fu istituito, sin dal primo giorno, come un Museo e come una istituzione descrivibile come una “galleria”: la sua spina dorsale è costituita da una collezione d’arte, ma agisce come una “Kunsthalle”, cioè in modo molto vivo, nella sua produzione di mostre e nelle sue attività. Per capire perché si decise di agire in questo modo occorre risalire al periodo della sua nascita – fine anni 50/inizi anni 60 -: per prima cosa era localizzato molto lontano dalla grande città (ndr. – Humlebaek, villaggio che ospita il Louisiana, dista una quarantina di Km. da Copenhagen), doveva esserci quindi qualcosa di particolarmente interessante affinché le persone decidessero di spingersi sino a qui, ricordando anche che – in quel momento – neppure le auto erano così diffuse come oggi. Il suo creatore era anche abbastanza stufo del clichè tradizionale dei Musei, con il loro sapere di tipo “enciclopedico”. Voleva creare un’istituzione di tipo diverso, meno “autoritario”, più “invitante” ed inclusiva, sia dal punto di vista fisico che contenutistico. Fisicamente, costruendo una architettura tipicamente scandinava, modernista, dai soffitti bassi. Dal punto di vista contenutistico, facendolo diventare “un posto dove le cose accadevano” ed al tempo stesso un luogo dove si potesse “consultare la storia”. Così, quando entri oggi al Louisiana, vedi le sue collezioni di arte occidentale del secondo dopoguerra – per frammenti e selezioni –, il giardino delle sculture, o mostre specifiche di diverso tenore e tema: è significativo, per una istituzione di questo tipo, essere interessata a diverse concezioni della cultura visuale. Ed oltre a questo, tra le nostre iniziative possiamo anche citare il “Louisiana Literature Festival”, od i concerti, o “Louisiana Live”, dove quasi ogni settimana, per tutto l’anno, due giornalisti moderano un incontro su temi di stretta attualità, possibilmente anticipando argomenti non ancora discussi dal grande pubblico o libri che debbono ancora uscire (è un po’ il nostro credo occuparci di cose due giorni prima che accadano – ride n.d.r. -).
D.: Un’attività a vari livelli, molto ampia. La collezione e le sue mostre, eventi speciali, musica, letteratura… Parlando in particolare della collezione: qual è il suo spirito?
R.: Per prima cosa, direi che non è enciclopedica, piuttosto è guidata da una visione, seppur ovviamente entro i limiti delle nostre disponibilità economiche (ma anche il Getty Museum qualche volta non può comprare qualcosa!). Alla sua base c’è un interesse umanistico, databile dal secondo dopoguerra, probabilmente perché questa istituzione, sin dal primo giorno, è stata interessata a stabilire un dialogo, uno scambio con il resto del mondo. Non solamente “manifestare il sublime”, ma realmente sollevare domande ed alimentare discussioni. C’è una ragione per cui Francis Bacon, Alberto Giacometti od artisti come questi sono presenti, od opere della fase più recente di Georg Baselitz ed artisti giovani contemporanei. C’è un desiderio, od un interesse verso la “Condition humaine”, che nelle opere si manifesta in modo molti diversi, e che – implicitamente – “parla” al nostro corpo fisico, ci riporta a cose che ricordiamo della nostra esperienza personale … una narrativa umana scorre nei lavori presenti in questa collezione – mi sentirei di dire – in modo molto manifesto. Quando si viene qui, per esempio per l’assenza di una grande hall di ingresso, sembra di far visita alla villa di un proprio zio ricco: ci si muove su proporzioni domestiche e quindi umane. Non viene detto dove andare, vengo offerte delle opzioni. Quando si inizia la visita si può per esempio osservare come la casa “si muove”, si entra ed esce, si lascia spazio a scelte personali.Per il momento in cui nacque si trattava di scelte molto radicali: l’espansione di una villa privata, che si proponeva ad un grande pubblico. Nel primo anno si ebbero 100.000 visitatori (quando la Galleria Nazionale ne ospitava 60.000!) ed ora ne abbiamo 600.000 in media per anno (250.000 provenienti dall’estero) … Abbiamo bisogno di supporti per la gestione, certo, ma si sostiene l’impegno per cercare di ottenere successo nell’aprirsi all’esterno, offrendo molte opportunità ad un pubblico eterogeneo, locale ed estero. In Danimarca abbiamo 5 milioni di persone, ed il Louisiana Club conta 60.000 membri. L’obiettivo non è semplicemente avere un pubblico maggiore, ma se noi parliamo a più persone, maggiore è il nostro successo.Esiste una autoreferenzialità delle istituzioni culturali, “esoterica”, ma non ha mai fatto parte di questo luogo. L’esperienza che si ha di questo Museo non è certo quella di una “fabbrica”, non ci si sente un “numero”, quanto piuttosto spetta al visitatore impegnarsi in una direzione od un’altra, in modo non gerarchico. Non abbiamo mai invitato il pubblico a seguire un ordine particolare, nel fruirne. É stata una battaglia, sin dall’apertura. Ci furono molte critiche: l’establishment culturale odiò questa impostazione, quello pubblico e quello privato. Fare una caffetteria all’interno di un Museo – nel 1958 poi! – poteva essere un’occasione per accusarci di non essere rispettosi delle arti! Sono invece abbastanza sicuro che quando qualcuno dei fondatori mise mano al progetto, una delle prime cose di cui si preoccupò fu proprio dove un visitatore potesse prendere un caffè e rilassarsi! E discutere di quello che aveva visto, scrivere una cartolina ….
D.: Il fatto che tutto sia a misura umana è molto importante: lo si vede nel Museo in sé, e nelle cose che accadono qui. Sono d’accordo con te, sono venuto in passato, e questo fatto lo si coglie. Altrove si è in una sorta di chiesa …
R.: … mentre qui il clima è felicemente profano. Il clima “esoterico” di cui ti ho parlato è precisamente quello che Jensen non voleva. Nasceva da un impulso culturale, ma è diventato un modello. Puoi andare al Museo Kröller-Müller a Ede, in Olanda, o alla Fondazione Beyeler a Basilea, e trovarlo. Quest’ultima, nel mandato che diede a Renzo Piano (che è un amico della nostra istituzione) per il progetto del Museo, certamente diede la misura di quello che doveva essere un luogo adatto per i loro Giacometti, per esempio. Renzo collocò un piccolo stagno fuori dal Museo, prima dell’entrata, in diretta relazione con le sue ampie finestre, che facevano da cornice all’acqua, agli alberi… Un’architettura sublime, che non copiava nulla: ma quando sei li, scopri che c’è qualcosa di Louisiana in quel luogo. In molti modi questo Museo è stato un’ispirazione. Non si è posto come tale, ma per molte persone, che lo hanno guardato con rispetto, lo è stato. E’ diventata anche un’architettura iconica, lo è ancora adesso, in un periodo in cui le architetture museali si misurano in chilometri … .
D.: Si può dire che, per molte persone l’arte moderna e contemporanea – lo è anche per me – sia difficile da affrontare. La questione dell’”accesso” diventa nodale. Vi chiedo quindi come si sia affrontata qui … Come vengono raccontate le collezioni, come vengono definite le mostre da proporre, in quest’ottica?
R.: Abbiamo un settore educativo, fu il primo Museo in questo paese ad averlo. Tutti i musei dello stato lo costruirono sul modello di quello del Louisiana. Si può dire che la sfida per il Louisiana sia molto ardua. Siamo in una posizione dove tutto quello che è stato fatto in questo paese negli ultimi 50 anni è stata una copia dell’esperienza di Louisiana. É stato un immediato, ovvio successo. Le persone hanno “votato con i loro piedi” (perché sono venuti da noi). Cosa deve fare la nostra istituzione nel XXI° secolo? Costruire edifici museali imponenti o cercare di diventare più ricca? Sarebbe stupido e non condurrebbe da nessuna parte. Noi non stiamo per costruire una sorta di nuova Tate Modern, cercando di espanderci come un impero. Non è coerente con la filosofia di questo luogo. Tutto quello che immaginiamo in termini di “espansione” deve avere a che fare con l’”inclusione”. La strategia dell’inclusione (molto “politically correct”) deve prevedere attenzione al contenuto. Viviamo in un mondo dove tutto è accessibile, mentre rimane il problema di dare qualità alle scelte. Tornando quindi al contenuto, esso deve sostenere anche il dialogo umano, la discussione. Ed ecco perché non siamo “feticisti” degli oggetti d’arte, come in qualche misura avviene in altre istituzioni. Il mio impegno in Louisiana data oltre venti anni fa, e quello che ho percepito sin dall’inizio, come spina dorsale, è la necessità di essere molto consci di quello che si fa, ed avere un’idea di dove si sta andando. Accade invece che altrove si agisca con meno riflessione, in modo più sciatto, o arrogante, con meno consapevolezza.Credo che il successo di Jensen, e dei successivi gruppi di lavoro di Louisiana, sia proprio nella consapevolezza di quello che si progetta e di come lo si comunica. Usiamo testi, parole e contenuti visuali, programmiamo incontri e discussioni – organizzati avendo cura di come vengono offerte le informazioni e di come che si possono ritenere. Investiamo risorse nello sviluppo delle narrative: siamo realmente impegnati nel produrre storie. Lo storytelling, anche se possiamo considerarla una parola un po’ consumata dal linguaggio comune, è quello che permette alle persone di relazionarsi.Ma se fosse solo per il nostro prato, il nostro caffè, le bellezze naturali … le persone non verrebbero più. Sono i contenuti che inducono i nostri visitatori a tornare, in modo diverso per ognuno. C’è un pubblico che viene solo per le mostre di pittura, un altro che viene solo per le mostre di architettura. Non sempre riusciamo a coinvolgere persone su diverse discipline…
D.: …ma lavorate anche per questo …
R.: …ed il nostro obiettivo rimane coinvolgere il pubblico in modo umano, serio.Tra i visitatori abbiamo avuto anche dei rifugiati, persone che hanno subito violenze nei loro paesi di origine, da cui sono fuggiti (il mondo ne è pieno …). Abbiamo un campo di rifugiati nella nostra regione. Un paio di volte l’anno creiamo corsi loro dedicati e li ospitiamo. É un’esperienza non “programmatica”, ma rientra nei nostri obiettivi generali. Ora i servizi di formazione ed educazione sono alla portata di tutti, la sfida quindi si sposta sulla loro qualità. Come dicevo, non pensiamo qui in termini di strutture più ponderose (edifici, o risorse umane…), e di espansioni “fisiche”, ma la crescita è focalizzata su quanto siamo in grado di offrire. Le decisioni vengono prese da un gruppo ristretto di persone, quindi in modo più raccolto e focalizzato. Ci sono cose da imparare da questo modello: e spesso è qualcosa che non viene accolto con favore da accademici come me. E’ una sorta di intuizione giornalistica, quella che governa alcune nostre scelte, ed è quello che permette di comprendere meglio quello che avviene intorno a noi, di seguire i “tracciati del reale”, di scoprire meglio le cose a cui le persone sono interessate. Questo non significa che facciamo sondaggi e in base ad essi adeguiamo le nostre attività, ma se possiedi queste capacità di indagine, e di conoscere per esempio cosa interessa, commuove od offende le persone, ebbene – anche in una società multimediale – allora si possono progettare attività complesse ed importanti.La qualità della vita dipende anche dalle domande difficili: proporre una mostra che queste domande stimola (per esempio sull’architettura africana od araba, e coinvolgere 120/150.000 persone) è anche offrire nuovi punti di vista, ed interrogarsi sulle tradizioni, porsi domande sull’imperialismo occidentale, o sul fatto che in quei luoghi si importino idee da altri paesi. E’ sempre di più chiaro che la condizione umana è un fenomeno globale, e che quindi – dal nostro punto di vista – c’è un limite in quello che Baselitz, Giacometti o Moore – punte di diamante della nostra collezione – possono comunicare nel mondo contemporaneo. Quindi dobbiamo tenere acceso il nostro scanner, ed orientarci per i migliori e più significativi esempi da cui trarre spunti di discussione, siano essi opere d’arte, o performance, o libri.Non puoi volgere le spalle al mondo, e tenere alto il livello del dibattito culturale. Noi non viviamo su un aeroplano che non fa mai scalo, non siamo curatori da jet-set muniti di antenne, piuttosto cerchiamo di indagare campi di interesse che siano in grado di alimentare adeguatamente la discussione. Alla fine quello che importa veramente è la qualità nella narrativa…
D.: … ed anche non essere necessariamente solo marketing oriented. Essere solo guidati dal mercato, si rischia di essere solo il riflesso di quello che è fuori, ma Louisiana ha mosso passi al di là, offrendo il proprio personale approccio al mondo del design, dell’architettura, dell’arte. C’è una grande lotta nelle istituzioni culturali per il reperimento delle risorse. Quali sono le vostre attività in questo campo?
R.: Come ho descritto, il nostro Museo è privato. Nel mondo capitalistico – che ci circonda ovunque – c’è ancora un certo rispetto verso chi “sopravvive al mercato”. Lo descrivo in questo modo, perché ci sono così tanti musei nel nostro paese, e Fondazioni (Grazie a Dio per questo, per il supporto che forniscono alle arti, perché il governo non è più in grado di finanziarle per intero). In questo nuovo capitalismo avanzato, di commerciabilità diffusa, che ha caratterizzato anche la scena museale degli ultimi anni, Louisiana gode di una posizione di preminenza, essendo sempre stato privato.Solo negli anni ’80 ha iniziato a ricevere qualche fondo pubblico, per una percentuale che raggiunge il 17/18 % del budget, essendo il resto finanziato altrimenti.Alcuni dei nostri colleghi si sono svegliati un giorno ed hanno scoperto di dover parlare con l’industria ed il settore privato, per integrare le loro entrate; il nostro Museo si è trovato in una posizione di privilegio, essendo sempre stato in una tale condizione. Questa è una tendenza che non cambierà più, crescerà solamente.Operare in questa direzione è meno gravoso nell’Europa del Nord, lo è di più al Sud (e Dio ti aiuti se è tua intenzione istituire un Museo, che so, per esempio in Afghanistan…). Una delle cose intelligenti che Jensen fece fu istituire il Louisiana Club, perché desiderava che qualcuno, dal di fuori, sostenesse il Museo. Queste persone sono informate sulle nostre attività in anticipo, usufruiscono di sconti ed opportunità loro dedicate… Come conseguenza, istituì poi i servizi di cui abbiamo parlato (Caffè, Negozio, …). Siamo nella parte protestante del Nord Europa, ed è questo il motivo per cui non vi è differenziazione nella membership. Non sarebbe stato così in America, neppure in Inghilterra (non so nel tuo paese …): Nei paesi anglosassoni vi sarebbero stati diversi profili di adesione, e quote molto rilevanti per i più ricchi (per es. $ 50.000). Certo queste persone esistono anche qui … . Anche se la nostra quota di membership è bassa (60 € ca), è diffusa, e se la moltiplichi per il numero di membri (60.000 ca), allora si vede come siano “veri soldi”. É stata sempre una colonna della nostra stabilità finanziaria. Il più importante strumento di marketing, poi, sono le persone. Nulla è maggiormente di ispirazione. La nozione di Jensen di raccogliere un gruppo di persone fedeli al Museo, nel modo che ho descritto, così cresciuta nel tempo, fu molto brillante. La nostra poi è un’area ricca, ed abbiamo comunque forza di attrazione nei confronti di molte persone ricche nel mondo. Ma qui non si troveranno “Cafè” separati, ristoranti “esclusivi all’ultimo piano”, e questo è un fatto essenziale. Se ci fossero, verremmo meno allo spirito costitutivo del Museo, al DNA del popolo danese. Puoi essere molto esclusivo, lo devi essere – se vuoi gestire un posto come questo – ma non puoi averlo come condizione costitutiva. Il nostro è uno degli spazi che possono essere descritti maggiormente come pubblici, nonostante il fatto che sia privato, perché pensa alla nozione di spazio pubblico come sua parte costituente. Le compagnie, le società, le industrie che ci finanziano non vedranno loro intitolate un’ala del Museo. Noi stessi siamo “al livello” di qualsiasi nostro visitatore.Abbiamo poi partner media come gli altri Musei, ma ritengo che il flusso principale di persone in visita non è generato dalla pubblicità, ma dai contenuti, dall’esperienza vissuta qui.
D.: Come possiamo seguire le vostre attività, non avessimo la fortuna di seguirle con costanza e direttamente? Come possiamo “rimanere in contatto”?
R.: É una bella domanda per concludere la nostra intervista. Abbiamo costituito il “Louisiana Channel”, di impronta giornalistica, che si occupa di arte e di discipline collegate, di alto profilo. Un’idea che nasce dal fatto che ci sono numerosi bravi artisti, architetti, scrittori che passano nel nostro Museo. La Televisione sta diventando sempre meno interessante, la radio nazionale danese è costretta a progetti via via meno ambiziosi, e si sentono sempre le stesse stupidaggini. “Louisiana Channel” non è un canale televisivo, è sul web, promosso dai social media. É un format sull’arte, sul design, sull’architettura, ma senza curatori che ne parlano; a parlare è chi produce. É realizzato con video brevi, di 5/6 minuti, che non trattano dell’arte in generale, ma di quanto si tiene nel nostro Museo ed oltre. É apprezzato da artisti e galleristi, ed è focalizzato sui contenuti che vogliamo evidenziare. Come dar voce allora ai nostri contenuti? In un modo molto immateriale: dicevamo che non volevamo costruire nuovi edifici museali, ed abbiamo puntato piuttosto sulla diffusione dei nostri eventi e dei nostri temi. É così che una istituzione come la nostra ha scelto di migliorare sé stessa. Spingere in là i nostri confini, non necessariamente coinvolgere famosi architetti, imprenditori e grandi macchine. Il cambiamento può essere innanzitutto nella nostra mente. E la storia si ripeterà, vedremo altri Musei creare i loro canali, e se lo faranno ritengo avranno lo stesso successo…
Link
Il sito ufficiale di Louisiana Museum of Modern Art
Il Louisiana Channel
Anders Kold – The World is Yours – Louisiana 2009 – Introduction
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